Cosa intendiamo quando parliamo di sostenibilità nel mondo della moda
Una conversazione con la docente Francesca Romana Rinaldi
18 Dicembre 2019
Sostenibilità. È questa la parola che ha caratterizzato l’industria della moda negli ultimi dodici mesi. Inflazionato, abusato, contenitore di molti significati, il termine è andato a definire lo sforzo - spesso tardivo - che i brand e le figure del settore stanno portando avanti per diventare più eco-friendly. L’attenzione verso tematiche di questo tipo sembra ormai diffusa tra i grandi marchi, ma soprattutto tra i consumatori. Lo dimostra anche il report Year in Fashion 2019 stilato da Lyst: le ricerche per gli argomenti inerenti alla sostenibilità sono aumentate del 75% su base annua, con una media di 27.000 ricerche al mese.
Di moda sostenibile, ben prima che diventasse un trend, si occupa Francesca Romana Rinaldi, docente all’Università Bocconi e autrice del volume Fashion Industry 2030. Reshaping the future through sustainability and responsible innovation, che raccoglie le voci e le testimonianze dei maggiori player dell’industria, chiamati a raccontare quello che si può fare per vestirsi e fare shopping in modo sostenibile. Già oggi esistono numerose buone pratiche e l’approccio delle aziende si sta gradualmente allontanando dal greenwashing per diventare realmente strategico. Il libro presenta tanti di questi casi fortunati casi aziendali, ma anche i main findings di più di 50 interviste ad opinion leaders, imprenditori, amministratori delegati, manager, associazioni, policy makers, alcune delle quali sono state condivise nel corso dell’evento.
In occasione della presentazione del libro presso lo store di Patagonia a Milano, Rinaldi ci ha guidato attraverso il complicato e insidioso mondo della sostenibilità, molto spesso oggetto da parte di brand di dichiarazioni buoniste che nascondono in realtà pratiche di green washing. Quello che sottolinea fin da subito la docente è l’importanza di utilizzare un tipo di comunicazione giusta quando si trattano argomenti di questo tipo:
È fondamentale affrontare i problemi del settore moda partendo da dati, è necessario un approccio scientifico. Quello che ho cercato di raccontare nel libro, che è quello che racconto spesso in aula, è il fatto che bisogna cercare di utilizzare un approccio multi livello: non tutti i consumatori sono interessati allo stesso modo e non tutti consumano allo stesso modo. Non tutti considerano la sostenibilità come criterio fondamentale, non tutti sono radicali. Ci sono tanti consumatori, io li definisco fashionistas, per cui l’estetica continua ad essere l’elemento principale che guida l’acquisto. È di fondamentale importanza cercare di educare nel modo giusto diverse tipologie di consumatori e di lettori.
Un primo step potrebbe essere la consapevolezza e la presa di coscienza da parte dei consumatori del costo in termini ambientali di ciò che acquistano, come ad esempio un semplice paio di jeans.
Si utilizzano fino a 10 mila litri di acqua [per produrre un paio di jeans], considerando l’acqua necessaria per la coltivazione del cotone, per la produzione del prodotto, e l’acqua che il consumatore utilizza per lavare il jeans. Poi però servono anche delle informazioni più dettagliate, che raccontano cosa succede realmente nella filiera.
Se i dati di Lyst già davano un’indicazione di quella che è la risposta dei consumatori al tema ambientale, la sezione Getting Woke del report The State of Fashion 2019, realizzato da BoF e McKinsey&Company, rincara la dose, rivelando che nove consumatori su dieci appartenenti alla generazione Z sono convinti che le grandi aziende abbiano la responsabilità e il dovere di agire rispetto ai temi sociali e ambientali più importanti del nostro tempo. È un cambiamento epocale, il cui merito non è solo di Greta Thunberg.
C’è sicuramente un aumento dell’interesse. Questo sta avvenendo perché ci sono dei canali informativi, come ad esempio i social network, che fanno da megafono alle informazioni che magari in passato erano condivise, ma non in maniera così forte e non da così tante persone. La condivisione peer to peer riesce davvero a rendere virale un messaggio. Il caso di Greta è il massimo esempio di viralità. È anche una questione di media e di social network.
Non è un caso che Rinaldi nomini quasi subito Patagonia, brand da sempre virtuoso nel campo della sostenibilità ambientale, una B-Corp che fa dell’impegno ambientale uno dei suoi punti di forza. Lo fa ben consapevole dei costi e delle difficoltà che una decisione del genere comporta.
Non ci sono tantissime aziende che sono delle attiviste, come invece è Patagonia, quindi credo che il successo di brand come Patagonia stia nel fatto che è in grado di creare engagement per il consumatore, per gli amici, per gli affezionati al brand. Loro riescono davvero a diventare dei log mark perché utilizzano anche lo stesso linguaggio, che è quello della community. Nello specifico, nel caso di Patagonia, sono amanti della natura, persone che hanno nel loro DNA il rispetto della natura. Secondo me il segreto del successo è proprio questo.
Ma quanto sarebbe effettivamente fattibile per i brand fare un’inversione di marcia radicale e convertirsi quindi in brand sostenibili?
Io spero che avvenga davvero e che non si debba aspettar il 2030 per questa trasformazione radicale. Ci sono dei brand come Patagonia che questa trasformazione radicale l’hanno già intrapresa anni fa, altri che si stanno avvicinando. Ci sono ancora dei casi di green washing, casi di aziende che ancora non hanno ristrutturato i loro processi ambientali per andare verso la circolarità ad esempio. Il percorso è lungo e complesso. È anche vero che è l’unico percorso possibile. I costi della sostenibilità ci sono, anche nei vari video di Yvon Chouinard in cui afferma che la sostenibilità ha effettivamente un costo, non lo sappiamo solo da Patagonia, lo sappiamo da tante aziende, come Candiani che ha lavorato con Dondup su un’innovazione della filiera che comunque comporta un investimento ricerca e sviluppo. A seconda della catena del valore, a seconda del modello di business avrà un costo di un certo tipo o di un altro, è un costo necessario. E ancora, non dovrebbe essere considerato un costo ma un investimento per la sostenibilità del vantaggio competitivo nel lungo periodo, se non si fa questo non si sopravvive.
Qualcuno definisce il 2019 l’anno del risveglio, dodici mesi in cui è diventato imprescindibile per ogni azienda, anche nel mondo della moda, soddisfare le sempre più pressanti richieste di consumatori di trasparenza e sostenibilità. Se questi requisiti sono alla base dello sviluppo di startup e piccole realtà, per le grandi aziende il processo verso il rinnovamento eco-consapevole non è così semplice, e soprattutto rapido. Ciononostante è ormai palese che per la moda un futuro più sostenibile non è solo possibile, è indispensabile. Se ne sono accorti tutti: le aziende che avranno successo saranno quelle in grado di integrare estetica, etica e innovazione responsabile. Sta cercando di farlo il gruppo Kering che entro il 2025 ha prevede di ridurre del 40% di emissioni di gas serra o LVMH che sta riducendo il suo packaging del 60%. Ma assumere una posizione attiva sulle questioni sociali, soddisfare le richieste e, spesso modificare fonti, processi di produzione, mentalità o persino identità per adeguarsi ai bisogni del pianeta e contemporaneamente conquistare nuove generazioni di clienti non è qualcosa che può accadere dal giorno alla notte. Richiede costi, sforzi, tempo.
Il libro di Francesca Romana Rinaldi ce lo ricorda e sottolinea l’importanza cercare di educare i consumatori che devono essere consapevoli, coinvolti e informati. La strada da fare è ancora tanta se, come afferma un recente sondaggio Swg che ha chiesto a un campione significativo di italiani di menzionare qualche brand realmente sostenibile, il 77% degli intervistati non è stato in grado di indicare nemmeno un nome. Forse il 2019 è stato l’anno del risveglio delle nostre eco-coscienze, ma quale sarà quello in cui vedremo i primi reali risultati di questo appello alla sostenibilità?