A Guide to All Creative Directors

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La tesi mal riuscita di "Opus"

Può un film come quello con Ayo Edebiri e John Malkovich raccontare il nulla?

La tesi mal riuscita di Opus Può un film come quello con Ayo Edebiri e John Malkovich raccontare il nulla?

C’è un film recente interessante su un ritrovo dove avvengono cose tremende. No, non è Opus, produzione della A24 che segna il debutto al lungometraggio di Mark Anthony Green, anche giornalista e editor di GQ. È Blink Twice, sempre opera prima, stavolta dell’attrice Zoë Kravitz, che decide di stare solo dietro la macchina da presa mentre dirige i suoi personaggi guidati da Channing Tatum nelle sevizie di un’isola idilliaca in cui si consuma l’orrore. Le premesse di entrambi i film, sia di Opus che di Blink Twice, conducono lo spettatore nei medesimi meandri: l’abbandono dallo stato naturale delle cose per addentrarsi in una comunità all’apparenza perfetta, lussuosa e irraggiungibile. Un sogno ad occhi aperti che nasconde loschi segreti. Se nel caso della pellicola di Kravitz gli eventi si uniscono pericolosamente alle vicende venute fuori dall’imprenditore Jeffrey Epstein al rapper Diddy, nel lungometraggio di Green il neofita regista e sceneggiatore mette la sua esperienza giornalistica facendo la cosa più sbagliata che si potrebbe mai fare al cinema: costruire un film a tesi. Un testo può farlo, così come un libro o un editoriale, ma un film, in cui vigono determinate regole e precise chiavi di volta, ha bisogno di essere scevro da qualsiasi asserzione. Soprattutto deve cercare di lasciare indietro ogni arroganza o presunzione, portando a questionare più che ad affermare. Una possibilità che, come vedremo, Opus non lascia. 

Attirati dal ritorno di una delle più grandi popstar del secolo, un gruppo di individui selezionati vengono introdotti nella residenza impeccabile e persa in mezzo al deserto dell’icona Alfred Moretti, un istrionico (ma neanche troppo) John Malkovich che ha tutto il phisique du role anche se il personaggio non è affatto approfondito. Tra questi pupilli scelti c’è la giovane giornalista Ariel Ecton, interpretata da Ayo Edebiri, la cui carriera speriamo Mark Anthony Green non abbia stroncato sul nascere (grazie al cielo ci sono The Bear e Bottoms, oltre al prossimo After the Hunter di Luca Guadagnino). Da tre anni in una redazione che non la valorizza, la ragazza viene invitata all’ascolto dell’album che segnerà il ritorno del cantante Moretti, finendo per voler fuggire da una vera e propria setta guidata dal personaggio di Malkovich, la quale non avrà nessuna remora a imporsi anche con la forza sui suoi ospiti.  

Il film di Mark Anthony Green è pretenzioso e naïf, una pellicola tutta improntata verso il raggiungimento di una teoria finale che però si perde durante il tragitto. Non basta un’ambientazione inquietante (che in Opus rischia di non esserlo mai) o il nascondere un qualche indicibile segreto (che si rivela deludente) per raccontare che oggi basta essere popolari per guidare le persone e capire chi un giorno avrà il comando. L’opera è un’intera parabola posta per suggestionare, stupire, far scioccare, che poi non suggestiona, non stupisce e fa più che altro scocciare. Un’ora e quaranta di film in cui al suo prologo si potrebbero unire direttamente gli ultimi dieci minuti conclusivi, perché è semplicemente lì che Green vuole portare. Non importa veramente cosa accade nel mezzo: c’è un’idea abbozzata, un paio di pugnalate e qualche immagine disgustosa, e il risultato si crede fatto. Ma ciò che nel frattempo ci ha raccontato Opus è il nulla. Non sa nemmeno come intrattenere ed è insensato visto che si basa su un protagonista che dovrebbe essere l’animale da palcoscenico per eccellenza, portando lo spettatore a domandarsi costantemente quando la storia prenderà finalmente la giusta svolta. Una proposizione che non vede l’ora di venire enunciata sul finale, costringendo alla prigionia nella residenza di Alfred Moretti non solo i personaggi, ma anche il pubblico. E, proprio come il piano della star, il film è di un’inconsistenza destabilizzante. Che qualcuno dica a Mark Anthony Green che saper scrivere di entertainment non significa saperlo fare anche per il cinema.