A Guide to All Creative Directors

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Il miglior film del 2024 secondo i Cahiers du cinéma

E perché è proprio L’uomo nel bosco di Alain Guiraudie

Il miglior film del 2024 secondo i Cahiers du cinéma  E perché è proprio L’uomo nel bosco di Alain Guiraudie

A L’uomo nel bosco di Alain Guiraudie è stato assegnato il primo posto nei migliori film del 2024 dai Cahiers du cinéma, la più prestigiosa rivista cinematografica francese. Da sempre la missione della testata è stata di porsi come rottura dagli schemi correnti, essere all’avanguardia e saperla anticipare, trovando una perfetta coerenza tra il cinema di Hong Sang Soo con In Water, l’opera indiana All We Imagine As Light di Kayal Kapadia e Trap di M. Night Shyamalan, anche loro nella classifica dei titoli imperdibili dello scorso anno. E, in qualche maniera, far raggiungere a L’uomo nel bosco la vetta della propria lista contribuisce al discorso di una critica militante che va oltre ciò che di risaputo conosciamo e a cui viene attribuito un plus valore proprio grazie al riconoscimento di un’istituzione tale come la bibbia dei cinefili.       

Non che Guiraudie non abbia contribuito al concetto di autore nel corso degli ultimi anni facendo dell’inaspettato, durante la visione dei suoi film, un dato imprescindibile per le proprie storie, che raggiunge con facilità anche nel thriller ambientato nella piccola cittadina di Saint-Martial, con le atmosfere sospese e indecifrabili che già si riscontravano nel suo cult Lo sconosciuto del lago. E se il festival di Cannes non lo ha voluto in concorso, riservandogli solo un posto nella sezione Première, allora a rivendicarne la grandezza sono proprio i Cahiers. Stavolta il protagonista è Jérémie Pastor, volto quasi bambinesco dietro le rughe d’espressione dell’attore Félix Kysyl, che torna nel suo paese di nascita per il funerale del padre del suo vecchio amico Vincent (Jean-Baptiste Durand), con cui arriverà ai ferri corti a causa dell’ambiguo rapporto che instaurerà con la madre Martine (Catherine Frot).

Tutto è strano, tutto è teso nel ritorno dell’uomo e nei rapporti che instaura con quei conoscenti di lunga data. C’è tensione erotica, c’è violenza animale, c’è continua eccitazione nel non sapere esattamente come le cose potranno andare e, di conseguenza, c’è un misto di spavento di fronte all’inaspettato che sappiamo da un momento all’altro farà capolino nella scena. E che, in un caso come L’uomo nel bosco, aumenta come la circospezione del protagonista mano a mano che si prosegue verso una sorta di risoluzione finale, raggiunta solo vagamente così da poter mettere un punto al film e dare un senso al genere thriller utilizzato. È con placidità che Félix arriva nella città, lungo una strada che seguiamo in apertura sui titoli di testa prendendo una, poi due, poi ancora un’altra curva e arrivando finalmente in un luogo che appare vuoto, irreale. Dove non esiste nessuno se non i personaggi che Alain Guiraudie mette in scena. Minimale, essenziale, non c’è un’anima nel paesino dimenticato da Dio e non solo perché è il destino delle tante cittadine di campagna, ma perché è così che vuole che siano le scene il regista: irreali, spoglie, ferme nel tempo. All’ombra di alti alberi, per nascondersi alla vista, come facevano i suoi sconosciuti accanto al lago nel 2013.

Un palcoscenico senza quinte, ma con case e chiese, fronde e foglie a celare i segreti. E in cui sono la passione e la misericordia - citata dal titolo originale del film, Miséricorde - a muovere i personaggi. L’uomo nel bosco è tutto un gioco di ruoli e di dichiarazioni improbabili, di personaggi che si spostano come tirati da un filo con Guiraudie a fare da burattinaio. Ogni cosa è stilizzata, impenetrabile eppure chiarissima, protagonisti e azioni sono spinti solo da pulsioni e non serve nient’altro per andare avanti. Né parole, né spiegazioni, né analisi contorte su qualsiasi gesto o occhiata. C’è il desiderio e c’è il perdono, c’è la bramosia e c’è la compassione. C’è anche la morte. Fine. In un film che rimane aleatorio, tratto da un segmento del romanzo Rabalaïre scritto sempre dal regista, e che di questa sua imperturbabilità fa forza, la scelta dei Cahiers du cinéma è dettata dal voler collocare il cinema su di un terreno non necessariamente limpido, cristallino, di facile lettura. Ma che non rimane nemmeno legato strettamente all’indagine, al voler scavare e scoprire, bensì lasciando che sia una componente spiccatamente immaginativa ad alimentare la settima arte. È una storia non approfondita, ma suggerita; non scritta, ma sussurrata. È il cinema che si può trovare per caso, che non si manifesta platealmente e che, per questo, bisogna saper bene dove andare a cercalo, come i personaggi nel film e la loro caccia ai porcini.