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Il caffè in Italia è davvero buono?

Il servizio di Report che ha triggerato una nazione intera

Il caffè in Italia è davvero buono? Il servizio di Report che ha triggerato una nazione intera

Che in Italia ci sia una grande tradizione del caffè è un dato appurato. Per anni, infatti, il gigante americano Starbucks si era rifiutato di aprire una sede nel Paese, poiché nel DNA italiano c’è, inequivocabilmente, l’espresso. Fu proprio l’amore degli italiani per il caffè che, nel 1983, ispirò Howard Schultz, CEO del brand, a creare una coffee-house che ricordasse la community dei bar di quartiere italiani. Eppure, sembrerebbe che l’Italia sia la “Repubblica della ciofeca”, almeno secondo il programma domenicale di Rai 3, Report. Per chi non lo sapesse, “ciofeca” è un termine dispregiativo per indicare una bevanda di cattivo gusto, che col tempo è diventato sinonimo di qualcosa fatto male. In alcune regioni, più che in altre, il caffè è quasi un affare di Stato. Tra le capitali principali spicca Napoli, dove ogni angolo ospita un bar convinto di aver decifrato il sacro codice del caffè. Tuttavia, otto volte su dieci, l’espresso risulta bruciato. Va detto che la tradizione napoletana predilige un chicco scuro e ultra-tostato, che conferisce all’espresso un sapore intenso e deciso. Ma non è detto che il caffè debba essere sempre un pugno allo stomaco. Anzi, più la tostatura è chiara, più emergono le sfumature del chicco, regalando alla “tazzullella” un gusto dolce e complesso. Esistono poi molte leggende metropolitane sul caffè, sia a casa che al bar: il filtro non si deve pulire perché deve “conservare” il sapore del macinato; la tazza deve essere alla stessa temperatura del liquido per evitare “traumi” al caffè; e il chicco, anche se conservato nella campana, rischia di perdere la sua umidità ideale a causa dell’aria. Ma in Italia, conta davvero la qualità del caffè o è solo la pausa che interessa?

Report, più che documentare, ha fatto leva sull’orgoglio napoletano, mettendo in atto una sorta di “rage bait”. Confrontare la tradizione del bar napoletano – caotico, indaffarato e familiare – con un moderno bar di Udine, tecnologicamente avanzato e in aperta opposizione alla vecchia scuola, porta inevitabilmente a reazioni prevedibili. Attaccare i baristi, considerati a Napoli una figura a metà tra un familiare e un terapeuta, rende la questione a tratti classista ed elitista. Più volte a inizio servizio i responsabili dietro al bancone hanno risposto di avere formato la propria esperienza  a partire dall'adolescenza.  Se, per di più, gli unici baristi competenti intervistati sono del Nord Italia, mentre i responsabili della “morte del chicco” vengono identificati solo tra i napoletani, il programma rischia di alimentare un bias culturale ben noto. Eppure, a Napoli non mancano gli specialty coffee, come It’s, Ventimetriquadri e Caffè Sansone, ma al programma non conveniva mostrare anche questa parte del capoluogo campano. Forse, alla fine, è tutta una questione di gusto. D’altronde, la tradizione napoletana del caffè “arruscato” ha saputo conquistare l’intera nazione. Certo, la qualità in molti bar lascia a desiderare, ma se i cittadini di Napoli vogliono ancora godersi una tazzina a un euro, è inevitabile scendere a qualche compromesso. Forse un servizio intero per attaccare l’orgoglio napoletano non era necessario: nella città di Partenope non conta il sapore del caffè ma l'esperienza di berlo al bancone. Per chi è ossessionato dalle diverse sfumature di ogni miscela, ci sono i paesi scandinavi.