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Diamanti è il film più personale di Özpetek

Diciotto attrici, gli anni Settanta e un abito da dover realizzare

Diamanti è il film più personale di Özpetek Diciotto attrici, gli anni Settanta e un abito da dover realizzare

Come accade alla maggior parte dei registi, anche Ferzan Özpetek ha sentito il bisogno di fare un punto della sua carriera. Non di metterlo, attenzione, solo di ragionare su cosa ha significato il suo cinema per se stesso, il suo pubblico e le persone con cui lo ha condiviso e ha lavorato. Diamanti, infatti, non è solo il titolo della sua nuova opera, arrivata dopo il non particolarmente lodato Cinema Olimpo, ma lo sono anche le sue diciotto protagoniste con cui sceglie di mettere in scena un “vaginodromo” - ci insegna il termine la spigliatissima Geppi Cucciari - che è insieme riflesso e contenitore della propria poetica. Perché, che possa piacere o meno, Özpetek una sua poetica ce l’ha e non ha mai mancato di portarla sul grande schermo, con una grande coerenza di temi, estetica e pubblico di riferimento.

Un’opera che non ha un’unica storia eppure contiene tantissime anime. La realizzazione di alcuni costumi per un film che metterà in scena i dolori, la collaborazione, i momenti di allegria e i disagi di un gruppo più o meno unito di donne negli anni Settanta, che da sole “saremo anche delle formiche”, ma insieme (si dicono) sono una potenza. E si vede che a Özpetek del racconto interessa poco. Si capisce che il tempo di poter sviluppare bene il percorso narrativo gli richiede uno sforzo troppo ambizioso da poter compiere senza scivolare. Ma anche quando di ognuna di loro si segue la storia e se ne abbozza lo sviluppo, l’importante per il regista e, quindi, per coloro che lo amano (meno per chi non piace) è esattamente far risplendere le sue gemme, a discapito del tessuto del racconto e puntando sulla sua arma: i sentimenti.

I sentimenti hanno sempre guidato la filmografia di Ferzan Özpetek, come una bussola a cui tornare ogni volta in cui ci si sentiva persi. Stavolta la direzione era chiara: fare una summa del proprio cinema che è sempre stato veicolato da un occhio diretto al femminile. Poco importano le conseguenze, l’obiettivo è dare alle sue attrici la possibilità di brillare. In questo Diamanti riesce con facilità, veicolato dal talento delle sue "personagge", e anche quando il melò si accentua al punto da straboccare e la sceneggiatura è più un canovaccio su cui lasciare a briglia sciolta il cast, il gineceo risponde con partecipazione ai desideri del suo regista. Ed è tutta qui la questione. Inutile pontificare sulla validità o meno dell’opera, appuntandone i risvolti naïf, spesso presenti in alcuni tratti di Özpetek, o commentandone con acredine alcune scelte più enfatiche (come alcuni primi piani) o delle leggerezze tendenti effettivamente al superficiale (dalla questione della violenza domestica agli inserti con Elena Sofia Ricci). 

Nell’illuminare le protagoniste, Özpetek cerca di rubarne un po’ di splendore uscendo dal cono d’ombra del regista, mettendosi anche davanti alla macchina da presa e facendosi quasi personaggio. Solo quasi, visto che lo spirito meta-cinematografico dell’opera è debole come il resto della sceneggiatura - scritta insieme a Carlotta Corradi e Elisa Casseri, a esclusione di una discreta e centrata descrizione di ogni personaggio - ma proprio come tutta la storia permeato di un solipsismo comunque onesto, non ingannatore. Mai falso, ma ingenuo e per tale ragione puro. È un film importante per il regista e vuole farlo capire al pubblico fino in fondo. C’è un affetto che è poi lo stesso che hanno messo le sue interpreti nell’accettare di prendere parte al progetto e di condividere tutte insieme la scena, avvolte dalla colonna sonora (anche questa piena di pathos) di Giuliano Taviani e Carmelo Travia e fasciate dal sopraffino lavoro dei costumi di Stefano Ciammitti. Un film di Ferzan Özpetek, a suo modo su Ferzan Özpetek se ci riferiamo al suo cinema, e per chi apprezza il regista e le sue attrici