“La stanza accanto” è l'Almodóvar meno Almodóvar di sempre
Il film vincitore del Leone d’oro a Venezia81 è un’opera a due sul filo che divide la vita e la morte
05 Dicembre 2024
Bisogna saper scegliere bene chi avere ne La stanza accanto. Un amico, un confidente, un famigliare. Martha vuole Ingrid, vecchia conoscenza che non vede da tempo e che è andata a trovarla mentre affronta la sua malattia in ospedale. Un cancro che non è detto si possa curare, allora meglio farla finita, senza perdere la propria dignità. Il tema, basato sul soggetto del libro Attraverso la vita di Sigrid Nunez, ha il pathos necessario per essere manipolato dall’arte e l’estetica melodrammatica di Pedro Almodóvar, che infatti si aggiudica il Leone d’oro col suo primo film in lingua inglese. E qui, una consapevolezza: l’opera, che per il suo teatro a due chiama al rapporto Tilda Swinton (con cui Almodóvar ha già lavorato per il mediometraggio The Human Voice) e Julianne Moore (rossa come rosso è sempre stato il suo cinema), non è la più meritevole del regista e sceneggiatore, ma è il riconoscimento autoriale mai raggiunto fino ad ora. Sebbene avesse ricevuto già il premio alla carriera proprio nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia nel 2019, la giuria presieduta da Isabelle Huppert ha decretato che in un anno di sperimentazione e contemporaneità, di modelli fatti saltare come con Queer di Luca Guadagnino e Babygirl di Halina Reijn, bisognava far trionfare la classicità. Andando in controtendenza anche con la Palma d’oro del 2024, l’inatteso e amatissimo Anora, dove l’indie si è mascherato sia da grande cinema per il pubblico sia d’autore, mentre è rimasto invece custodito con parsimonia dalla maestria di Sean Baker. Di certo un altro dato da sottolineare è come il riconoscimento sia arrivato per un’opera anglofona, dopo anni di cinema spagnolo per una lingua che, in sé, contiene tanta tradizione. Sebbene alcuni possano vedere l’essenza di Almodóvar snaturata con La stanza accanto, è proprio lì, invisibile, racchiusa come un segreto da mantenere o un medicinale da nascondere con cui si vuole cercare di morire, che può ritrovarsi la sua mano.
Con un fare languido ed enfatico, il film parla di vita e di morte, di passato e di presente, delle donne protagoniste, di cosa hanno vissuto e di come sono arrivate lì, finora l’una accanto all’altra. L’adattamento dal romanzo è composto e formale, è l’apparenza al di sopra del contenuto, dove tutto è artificioso, ma non cela nemmeno di volerlo essere. Ne è cosciente, come il genere del melò, come un’intera carriera a cui Almodóvar si è dedicato. Ed è forse in questo suo sperimentare con la lingua e un contesto differente, quasi più rigoroso, volontariamente raffinato, a tratti molto elegante in cui è strano eppure intrigante ricercarlo. Avere la sensazione che il fuoco che ha sempre arso al di sotto delle sue pellicole potrebbe improvvisamente spegnersi - in fondo, si parla di morte - ma è possibile ritrovarlo in sbavature appassionate, nel kitsch involontario eppure giusto, come nei flashback così imprevisti e inadeguati, a volte eccessivi e accorati in cui, però, si intravede l’autore. E, poi, i suoi pilastri. Le sue attrici. Annoverato tra i registi che amano e fanno amare le proprie protagoniste, portandole spesso a nomination e premi come, tra le ultime, nel 2021 la Coppa Volpi a Penélope Cruz per Madres Paralelas sempre alla Mostra di Venezia, Almodóvar lascia a Swinton e Moore il palco. Le fa diventare amiche, non forza la loro relazione, nonostante la incaselli in una scenografia preponderante fatta di arte e architettura, di rossi, gialli e verdi. Sono fittizie anche loro, ma sono interpreti talmente talentose da umanizzare la teatralizzazione e la verbosità dell’opera, da diventare sì icone del cinema di Pedro Almodóvar, ma anche donne che hanno vissuto l’amore, hanno perso l’amore, si sono infilate con tutte le scarpe nella vita e ne hanno affrontato anche gli aspetti più insidiosi, fino ad arrivare a quel momento, ora, all’idea dell’eutanasia.
In quanto argomento portante de La stanza accanto, la decisione di voler morire per mano propria è il sottofondo di un racconto che comprende le volontà del personaggio di Martha e che sta vicino a Ingrid mentre accetta di poter fare l’unica cosa che le resta: essere una buona amica. Mai gridato seppur dolente, in linea col rigore dell’intera pellicola, il desiderio di morte non è agonizzato o agonizzante, è semplicemente il voler esaltare ciò che è stata la propria vita, non vederla sgretolarsi. E, come tutti i buoni film che parlano di morire, anche La stanza accanto deve per forza riempirsi di vita, oltre che di significato. Nei rapporti con le persone, nella memoria di ciò che si è stati e come si vuole essere ricordati. Nella propria prole, magari. E, noi, lo ricorderemo così il film: borghese e stanco, afflitto e caldo. Un Almodóvar meno Almodóvar di tutti, ma comunque apprezzato. È il film di un regista che riesce a rimanere se stesso anche quando sembra tutt’altro.