In "Le Déluge" vi aspetta una Maria Antonietta come non l’avete mai vista
Intervista al regista e sceneggiatore Gianluca Jodice
20 Novembre 2024
Sul perché Maria Antonietta continui ad essere una delle figure più indagate dai libri, le serie tv e il cinema, il regista e sceneggiatore Gianluca Jodice ha la sua idea: « C’è quella banale e immediata che ci riporta al periodo di Versailles, in cui l’anima giovanile e adolescente della regina è rimasta cristallizzata soprattutto dopo l’uscita del film di Sofia Coppola e continua ad affascinare per la volgata mitica. In Le Déluge, però, non ci siamo voluti fermare lì, abbiamo scavato nel lato responsabile e tragico di un periodo molto breve per la sovrana, in cui il suo essere madre, moglie e compagna affettuosa risulta un attaccamento insolito e poco esplorato nella relazione intima e reale avuta con Luigi XVI ». È quest’ultima parentesi che l’autore, al secondo film dopo Il cattivo poeta e scritto insieme a Filippo Gravino, ha voluto indagare. Una ricerca « più sulla ragione che sulla libertà, un discorso complesso che vede l’illuminato voler scacciare qualsiasi ombra dall’individuo finanche arrivando a punirne ogni minima impurità, diventando in qualche modo ben più violento e degenerando nel razionalismo logico ».
Ragionamenti e filosofie che Jodice riprende e adatta in Le Déluge - Gli ultimi giorni di Maria Antonietta, che in Italia arriva dal 21 novembre nelle sale dopo essere stato presentato in anteprima al festival di Locarno, mentre in Francia è atteso nel giorno di Natale. Un’opera che prende spunto dai diari del valletto Cléry, che ha assistito la famiglia reale durante la prigionia nel 1792, fino alla decapitazione. Se nel primo film Jodice dirigeva Sergio Castellitto nel ruolo del poeta Gabriele D’Annunzio, stavolta sono Guillaume Canet e Mélanie Laurent i suoi divi protagonisti: « Conosco la lingua perché mi sono laureato su un filosofo francese e il professore esigeva che leggessi i testi in originale. Lo capisco bene, lo parlo meno, ma arrivato sul set avevo talmente chiara in mente la sceneggiatura che sapevo non ci sarebbero stati problemi, non più di quanti ne richieda un film storico e ambizioso ». Un regista come Woody Allen, quando ha diretto il suo ultimo lungometraggio Coup de chance, girato nei quartieri di Parigi, ha dichiarato che non capiva cosa si dicevano gli attori mentre recitavano in francese, ma intuiva se la scena andava bene grazie alle intenzioni che mettevano: « Purtroppo non potevamo permetterci lo snobismo di Allen - commenta ironicamente Jodice - Raccontando un momento così specifico nel tempo, fatto di passaggi emblematici per la Storia, ci siamo serviti di alcuni linguisti per rendere il linguaggio accessibile allo spettatore, ma fedele alla ricostruzione settecentesca. »
Un po’ come il lavoro fatto sul trucco prostetico di un Luigi XVI che nasconde l’attore Canet sotto un volto e una fisicità non suoi, di cui è riconoscibile solo il taglio degli occhi. « Mi piace nascondere gli attori, ma non cerco la somiglianza forzata, come accade a molto cinema statunitense. Un interprete deve evocare un personaggio, non deve farne l’imitazione, è un equilibrio molto delicato. Altrimenti ci ritroviamo con prodotti come Bohemian Rhapsody in cui Rami Malek è identico, ma non c’entra niente con lo spirito di Freddy Mercury. L’unico rischio che Guillaume ha corso era di perdersi sotto il trucco vista la performance sottile che il personaggio richiedeva. Alcuni ritengono che Luigi VXI fosse un asperger, così abbiamo approfondito questo tratto e Canet si è fatto aiutare da un suo amico che tiene dei corsi con persone affette da autismo per non rendere i gesti plateali, ma non castrare nemmeno troppo la sua espressività. »
Una preparazione e un risultato che puoi ottenere « quando hai degli attori straordinari, dei fuoriclasse - racconta Jodice - Attori che hanno amato la sceneggiatura e sono entrati in una sorta di coproduzione, così da rinunciare anche un po’ alla loro parte di compenso per permettere al film di vedere la luce. » Interpreti con cui è inoltre possibile affrontare anche le sequenze più ostiche. Una in particolare turbava la protagonista Laurent prima di girare, un urlo straziante che racchiude l’unico e immenso momento di dolore in un « prison drama », così piace definirlo all’autore, in cui Maria Antonietta sfoga e tira fuori tutta la sofferenza trattenuta e che ha segnato la fine sia della monarchia che delle loro vite. « Mélanie aveva l’incubo di quella scena. Non vive nel centro della Francia, ha una casa lontano dai salotti di Parigi, nel sud del paese, e mi ha raccontato che per prepararsi scendeva sugli scogli e urlava contro l’acqua. Le ho domandato cosa la turbasse, era ossessionata dalla sequenza e si chiedeva se dovesse durare così tanto. Al montaggio è stata leggermente tagliata, pur restando un momento estenuante come richiesto dalla situazione, ma l’abbiamo comunque girata per tutto il tempo necessario. Durante la scena portava delle cuffie e ho scoperto dopo che mentre gridava stava ascoltando della musica. Non voleva saperne niente di questo dolore animale che tira fuori il personaggio e che invece, per me, era eccitante da girare, perché è il segno di una prigionia diabolica da cui i personaggi non potevano sfuggire e che si rifaceva ad una leggenda che voleva la regina disperata nel momento in cui il marito le rivela il proprio destino, tanto che le sue urla si sentirono fino al cuore di Parigi. »
Tra racconti popolari e fedeltà storica, per Le Déluge - Gli ultimi giorni di Maria Antonietta il regista ha dovuto non solo ricostruire o studiare, ma anche dimenticare un intero mondo fatto di riferimenti al cinema in costume o all’arte pittorica, per permettere al film di trovare una propria identità, sempre con l’ombra del Barry Lyndon di Stanley Kublick alle spalle. « Mi è venuto in mente ciò che diceva Danilo Donati, scenografo e costumista dei film di Federico Fellini. Quando gli chiedessero qual era stato il metodo estetico adottato per il Casanova, rispose che andava al museo, guardava tutti i quadri del Settecento che trovava, poi chiudeva gli occhi, se ne andava e riproduceva cosa gli era rimasto. Sebbene ne Le Déluge non c’è stata una simile cancellazione del dettaglio, sono rimasto colpito da questo desiderio di riproduzione platonica più che reale, un esempio di lavoro che riporta all’essenza. » Ed è stata esattamente l’essenza dei tre capitoli che suddividono la pellicola - gli dei, gli uomini, i morti - che ha guidato la mano di Massimo Cantini Parrini, costumista candidato agli Oscar per Pinocchio di Matteo Garrone e Cyrano di Joe Wright, i cui lavori nel 2024 contano anche il Maria di Pablo Larraín e la serie M - Il figlio del secolo con Luca Marinelli. « Massimo, come una certa tipologia di geni, è pigro, quindi quando ha letto la sceneggiatura se ne è innamorato subito perché ha pensato che, stando in prigione, avrebbero avuto tutti un unico costume. Al di là dello scherzo, è un artista dall’eleganza superiore, che non è interessato solo alla bellezza, ma alla veridicità storica e di chi viene rappresentato. Lui sa cosa significa un vestito per un personaggio in un preciso momento. Così per Le Déluge, dopo aver ricercato la regalità nell’oro per lui e l’argento per lei, ha lavorato a strati, con l’idea di spogliare gradualmente i protagonisti capitolo dopo capitolo, sporcando sempre di più ciò che restava dei loro sontuosi abiti arrivati dall’Olimpo e finiti all’inferno.»
Tra le altre grandi collaborazioni salta all’occhio la presenza nella produzione di Paolo Sorrentino, con cui Gianluca Jodice condivide l’infanzia a girare insieme cortometraggi e, un po’ come raccontato dall’autore di È stata la mano di Dio, il cambiamento di vita nel trasferimento da Napoli a Roma. « Le Déluge è una co-produzione Italia-Francia. Diciamocelo chiaramente, conoscendo anche il popolo nello specifico, non era proprio scontato che accettassero che un regista al secondo film scegliesse di raccontarne un periodo cruciale come la Rivoluzione francese, e direi quasi giustamente. Così, dopo un primo periodo di angosciante dialettica sui finanziamenti, sul fatto se il film si facesse o meno, ho chiamato Paolo che ha una grande base di appassionati in Francia, e dopo aver letto e adorato la sceneggiatura ha deciso di entrare nella produzione, allineando i contributi da entrambi i paesi. » Così Le Déluge - Gli ultimi giorni di Maria Antonietta arriva in sala in un momento cruciale per le sorti di un intero mondo globalizzato, alla deriva di sicurezze e, forse, di ideali. Una spaccatura, pur diversa dalla rivoluzione a cui fa riferimento il film, la cui sensazione di enorme trasformazione sociale, politica e culturale non è poi così lontana dai grandi (e spesso spaventosi) cambiamenti che ogni paese sta attraversando. « È stato il pubblico stesso a farlo presente », spiega Jodice. « Molti dicono quanto sia palese il gancio alla contemporaneità, anche se nel film non viene mai teorizzato. È il senso di vertigine che si percepisce alle soglie dei cambiamenti storici, un’atmosfera apocalittica su qualcosa che sta per finire e che apre a un futuro sconosciuto. Noi stessi, oggi, viviamo nell’ambiguità di non sapere o capire cosa succederà, in cui si percepisce un’isteria e un’angoscia di fondo, in cui i principi che erano stati sbandierati sono stati disillusi, tanto da rendere in questi termini Le Déluge un film più metafisico che storico. »
Un’opera sul passato che crea un ponte col presente, che per Jodice « sembra andare sempre peggio, senza sofisticherie né retoriche. E non riguarda le destre o le sinistre, ma un deterioramento antropologico. Esattamente come tendono a mettere in luce i film storici, ci si accorge di come spesso in simili parentesi manca una coscienza etica, di giustizia. Si è avvolti da un irrefrenabile irrazionalismo, che è la mia paura più nera. Non c’è illuminismo che tenga quando arriva una valanga come questa. » Chissà se saranno temi che Gianluca Jodice affronterà anche nel suo prossimo film su cui è già al lavoro e che, dopo la soglia della Seconda Guerra Mondiale con Il cattivo poeta e la Rivoluzione francese con Le Déluge, sarà ambientato nella contemporaneità: « Non ho cercato io opere in costume, farne due di seguito è capitato. Non sono uno storico, né ho particolari vezzi. Se dovessi trovare il tratto che più accomuna i miei due film fatti fino ad ora direi che è il senso della fine, che sia di un’epoca o di un personaggio. Grandi protagonisti che toccano momenti alti e traumatici, giunti al punto di non ritorno. »