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La bolla è scoppiata: il tracollo dei mercati grigi del lusso

Era una droga, una salvezza – e con il suo crollo potrebbe trascinare molti via con sè

La bolla è scoppiata: il tracollo dei mercati grigi del lusso Era una droga, una salvezza – e con il suo crollo potrebbe trascinare molti via con sè

L’anno scorso, quando ancora la marcia trionfale della crescita della moda proseguiva più forte a ogni trimestre, uno dei segreti più nascosti del settore era venuto a galla: quello dei mercati grigi. Il network semi-sommerso di prodotti legittimi distribuiti attraverso canali non autorizzati o dai grossisti multi-brand o dai produttori originali, spesso venduti a prezzi più bassi del 15% o del 35% rispetto a quelli previsti per il mercato di riferimento. L’esistenza di questi canali, come scrivevamo nella nostra prima inchiesta a riguardo, «mantiene alti i margini dei retailer nonostante la crisi delle vendite al dettaglio, e aiuta i brand a registrare salutari percentuali di crescita vendita ma falsificando le effettive performance di tutte le parti coinvolte». Attualmente, la pratica non è propriamente illegale – indi per cui i mercati sono “grigi” agli occhi della legge. Eppure, pur arginando il fenomeno con clausole sulla distribuzione presenti nei contratti con i retailer, i brand stessi hanno iniziato a coltivare tale pratica che per anni ha creato l’illusione di una crescita sana e che ora, con la crisi delle vendite del lusso, promette col suo collasso di cambiare anche le dinamiche dell’industria. 

L’evoluzione del mercato grigio: dai grossisti alla vendita diretta

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Abbiamo parlato con due consulenti digitali che lavorano con numerosi brand e piattaforme su cosa fosse cambiato all’interno dei meccanismi del mercato parallelo: «Oggi il mercato grigio è cambiato perché sono cambiate le richieste dei grossisti. Il prodotto viene venduto direttamente ai clienti attraverso i canali digitali. I marketplace oggi rappresentano il nuovo parallelo», spiegano gli esperti che hanno preferito restare anonimi. In breve, i retailer sono costretti a fare ordini di merce molto consistenti per rispettare una soglia di budget che permetta loro di continuare ad acquistare, anche se la merce non viene venduta. Per liberarsi di questi beni di lusso, i retailer «li stanno canalizzando e smerciando attraverso queste piattaforme che una volta erano tre e oggi sono duecento, diversificate in tutte le aree del dalla Cina all'India, dall'Australia, al sud America, fino al Medio Oriente». In passato, infatti, i retailer che vendevano sul mercato grigio lo facevano ad altri rivenditori che in sostanza acquistavano in blocco la merce da loro consentendo ai retailer di recuperare l’investimento sulle vendite, liberandosi della merce invenduta ma allo stesso tempo mantenendo aperti i canali commerciali con i brand. Ora che i brand vogliono vendere molto di più a meno retailer, però, si è creato un accumulo che, dopo il crollo della spesa nel lusso, va smaltito non più con ordini all’ingrosso ma con la vendita al dettaglio. Tale vendita avviene tramite le piattaforme in cui i suddetti beni di lusso sono venduti con forti sconti attraverso gli e-commerce multibrand «dove non si sa chi compra o chi vende il prodotto».

@libbylemonlines

I know its on sale at farfetched but surely thats too cheap? I don’t get it

original sound - Lib

Questa nuova pratica è molto più impegnativa in termini di tempo e risorse oltre che una forte rottura con gli ordini in blocco del passato «perché si vende un pezzo alla volta, né si viene pagati in anticipo, perché ovviamente c'è il rischio che non si venda», spiegano i due insider. I brand «collegano semplicemente le loro giacenze alle piattaforme offrendo il proprio assortimento a un prezzo molto vantaggioso». Un’involuzione del flusso di lavoro che testimonia, per parafrasare il famoso detto, che la bassa marea fa calare tutte le barche: «Il parallelo è stato molto redditizio in passato», spiegano, «si vendeva per fare margine ma ora questi margini non ci sono più e quindi si cerca di far fuori le rimanenze». Ovviamente sarebbe impossibile fare i nomi dei brand che adottano tale pratica – che comunque sono quasi tutti ai più impensabili livelli del mercato. «Facciamo un esempio», ci dicono i due esperti, «sul mio canale ufficiale non sconto mai niente. Il mio prodotto è sempre bellissimo, sempre a posto, non faccio saldi - niente. Ma poi utilizzo la piattaforma di turno per smaltire tutta la roba che comunque sul mio sito non vendo perché l’87% di quella merce è rappresentato solo dai carry-over. Noi siamo stati approcciati da tanti brand che vogliono accedere in prima persona su queste piattaforme». La cosa notevole è che, se i brand in passato hanno tacitamente accettato una pratica svolta dai grossisti, ora hanno preso in mano loro stessi le redini della situazione. «Oggi il parallelo resta conveniente se lo fanno loro stessi», spiegano i due. «I brand hanno trovato interlocutori in alcune aree del mondo in cui la loro distribuzione era scoperta e si sono affidati a compratori che garantiscono volumi e presenza sul mercato».

Prezzi alti, vendite basse, manager miopi

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Oltre che a svuotare i magazzini con una certa discrezione, il mercato grigio è importante «perché la richiesta sul mercato parallelo serve per capire come va il tuo brand. Oggi la desiderabilità è data dal prezzo a cui il compratore è disposto a pagare quel brand». Ma c’è stato un «cambio di paradigma» dovuto ai prezzi sempre più alti del lusso, che hanno reso inappetibile la merce anche a chi la comprava in sconto. Ma solo perché la domanda del lusso sembra ferma non significa che la domanda di abbigliamento sia esaurita, anzi. Semplicemente stanno ruotando i posizionamenti dei brand e i gusti dei clienti: «Mentre Carhartt non se lo metteva nessuno fino a qualche anno fa, oggi se lo mette uno che normalmente porta Saint Laurent». L’innalzamento dei prezzi ha spezzato, per così dire, il mercato del lusso facendo emergere un segmento di brand che i due definiscono «oltre-lusso» e che è rappresentato da Brunello Cucinelli, Kiton, Loro Piana, Hermès - sui cui costosissimi prodotti «il lusso lo puoi capire». Per il resto dei brand le cose sono diverse: «Un brand è in grado di giustificare una felpa da 1200 euro? Nel concetto di lusso tradizionale dovrebbe farlo, ma ora non ci riesce più». 
 
 
Vendendo design banali, i brand di lusso hanno finito per competere con la grande distribuzione che ovviamente vince il confronto dato che costa molto meno. Il problema dunque risiede in questo «inseguimento dei numeri e dei volumi» che ha portato il sistema prima a doparsi, poi ad accartocciarsi su se stesso. La radice di questo male sta nella policy e in chi la mette in atto: i manager. Se un tempo i brand nascevano a partire dalle aziende dei produttori (pensiamo sia ad aziende come Zegna e Loro Piana ma anche a gruppi come Blufin o Gilmar) che dunque mantenevano una certa stabilità per interi decenni, nel mondo delle quotazioni in borsa il turnover è assai più rapido. Il che porta magari a una maggiore flessibilità ma distrugge completamente la lungimiranza strategica: «Normalmente i manager che stanno in queste aziende durano dai due ai quattro anni e prendono dei bonus allucinanti sulle crescite», ci spiegano i due. «Quindi cercano di pompare le vendite all'inverosimile perché sanno che i tempi che ci possono rimanere sono quelli - solo che ovviamente così non sviluppano una strategia a lungo termine». 

Sgradevoli antidoti e palliativi inutili

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A causa di questa miopia strategica, dovuta a manager che cambiano troppo rapidamente per sostenere strategie a lungo termine la soluzione immediata al problema dell’invenduto sono diventate le svendite, che infatti si moltiplicano e diventano più care ma anche più redditizie. Un cliente dei due che ne ha organizzata una per liquidare l’inventario prima di ristrutturare i negozi: «ha incassato quanto normalmente incassano in sei mesi in trenta giorni, un milione di euro, scontando la merce al 50%», raccontano. «Il problema non è che la gente non compra più il lusso: non compra più il lusso a quelle cifre. Perchè Vinted continua a crescere? Non perché alla gente piaccia comprare secondhand. Alla gente piace comprare la roba di lusso a un prezzo che può permettersi». Risale a ieri, ad esempio, la notizia che il 50% dei profitti di Burberry e il 30% delle vendite globali del brand deriva dai suoi 56 outlet mentre i nostri intervistati ci hanno anche rivelato che un noto brand milanese ricava cento milioni l’anno da un unico outlet situato in Toscana - «gli outlet sono la vera miniera d’oro» hanno rivelato i due. Nonostante ciò i prezzi salgono e l’idea di abbassarli è tabù.

La soluzione potrebbe essere duplice: da un lato «una razionalizzazione dei prodotti o una diminuzione della produzione, per contenere il numero di pezzi che ci sono in giro dato i brand hanno ingolfato il wholesale per far crescere i numeri»; dall’altro però «se i grandi gruppi non si rendono conto che prima o poi devono abbassare i prezzi credo che entreremo in un processo irreversibile e che il lusso rimarrà solo ed esclusivamente per pochissimi». Insomma, i problemi del parallelo non sono che i problemi della moda stessa: da sempre questi mercati fungono da “termometro” per capire che prodotto e che brand è più richiesto un po’ come la presenza di falsi e di imitazioni indica in fondo il successo di un certo brand anche se in teoria ne danneggia il business. «Non esiste un futuro per le aziende che pensano di sopravvivere solo tagliando i costi», ammoniscono i due esperti, indicando come soluzione al tracollo «la multicanalità e una gestione snella delle aziende». Ma come si può gestire in modo snello un impero internazionale? E soprattutto, nel nuovo mondo su cui la moda si affaccia, il lusso può essere rappresentato da un impero internazionale tanto massificato quanto McDonald’s o Coca Cola? Il sorgere del nazionalismo e il moltiplicarsi delle Fashion Week in tutto il mondo, il protezionismo economico promosso dagli USA e dalla Cina oltre che la rarefazione delle eccellenze artigianali suggerisce in effetti un futuro diverso, popolato più da regni nazionali che da imperi globali. E se fosse la nazionalizzazione delle mode la nuova globalizzazione dell’industria?