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Il marketing della moda è diventato un gioco al rialzo

Progetti più lunghi e impegnativi – anche più redditizi?

Il marketing della moda è diventato un gioco al rialzo Progetti più lunghi e impegnativi – anche più redditizi?

Il mondo dei ricchi conduce una vita scandita da un calendario mondano che oggi più che mai include gare sportive e festival per collezionisti d’arte, dagli Art Basel e le Biennali fino alle regate come il Sail GP e l’America’s Cup, alla Formula 1, ai tornei di tennis. E sempre di più, negli ultimi anni, i brand di moda hanno fatto di tutto perché il loro logo campeggiasse nel punto più visibile di ciascuna di queste manifestazioni. Quest’anno, però, la corsa ha forse raggiunto il suo punto più febbrile. C’è stato il takeover delle Olimpiadi di Parigi da parte di LVMH, un’operazione da 150 milioni di euro che ha superato sia il deal stretto dal gruppo nel 2020 con l’NBA che quello con la Rugby World Cup dell’anno scorso. A inizio ottobre sempre LVMH ha stretto un deal decennale con Formula 1 mentre, alla conclusione dell’America’s Cup, Bernard Arnault consegnava personalmente il primo premio alla premiazione; Chanel è diventato sponsor della University Boat Race che è diventata Chanel J12 Boat Race, Armani è il nuovo partner dei Giochi di Cortina 2026, Prada sponsorizza la nazionale cinese di football femminile e il team di Luna Rossa, Miu Miu diventa una delle principali attrazioni dell’Art Basel di Parigi con la sua installazione mentre Lacoste firma come premium partner del torneo Rolex Paris Masters (oltre a essere partner storico del Roland-Garros) e il Gruppo Puig è dall’anno scorso un partner così importante della Woman’s America’s Cup che la gara si chiama adesso Puig Women's America's Cup. 

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Sono tutte situazioni di alta visibilità ma, per i brand di moda, questi accordi di partnership stanno diventando scommesse sempre più ambiziose e, dunque, sempre più rischiose. Facciamo un esempio: LVMH ha speso tantissimo per le Olimpiadi, ma al di là dei contratti da fornitore stipulati per lo champagne o le divise degli atleti, e i mille nuovi ambassador collezionati dai suoi brand tra gli atleti-superstar di tutto il mondo, è difficile correlare l’investimento del gruppo a un aumento di vendite. Considerati poi i risultati trimestrali post-estivi pubblicati da LVMH, le vendite sono addirittura scese. È chiaro che non sta a noi fare i conti in tasca a LVMH e capire se il gigantesco investimento delle Olimpiadi sia andato a frutto o meno – ma quello che è sicuro è che, date le vendite in calo ovunque, Hermès incluso, qualunque visibilità ottenuta non si è tradotta in profitti sul breve termine. Un’equazione ambigua, quella di EMV e vendite, che ha portato i brand a ridurre gli influencer invitati alle proprie sfilate del 75% quest’anno ma forse ha fatto rendere conto diversi executive di avere le mani un po’ legate in termini di stratagemmi commerciali da giocare.

Il problema non è ancora scottante, ma promette di diventarlo. È tutto iniziato dall’innalzamento dei prezzi, che nei casi di certi brand sono addirittura raddoppiati in due anni. L’asticella dei prezzi, nel lusso, può solo salire – quando scende lo fa alla chetichella e di pochissimo, senza che nessuno se ne accorga.  Ora, da che mondo è mondo, ci sono due modi per incentivare i consumatori a consumare: il primo è abbassare i prezzi e fare offerte, cosa che si può fare con svendite e attraverso i mercati paralleli ma non pubblicamente; il secondo è la pubblicità. Intrappolati sulla mongolfiera dei prezzi in salita, dunque, i grandi gruppi stanno ottimizzando i loro sforzi di marketing perché letteralmente non hanno altra scelta per invogliare il pubblico a comprare. Ma siamo in tempo di austerità nello spending e anche i budget del marketing adesso sono ristretti: bisogna dunque concentrare i propri sforzi, investire in progetti di alto profilo e soprattutto ad alto (ma potenziale) ritorno. Il paginone centrale di Vogue non basta più, specialmente in un’epoca in cui tutte le campagne, tutti i progetti fotografici più elaborati finiscono in pasto allo stesso feed di Instagram. Cosa c’è, dunque, di più rassicurante per un uomo d’affari di un accordo decennale per sponsorizzare la Formula 1? Quale piattaforma porta i brand più vicini all’1% dell’1% di una regata come l’America’s Cup? Certo è bizzarro che mentre gli investimenti si spostano eventi artistici e sportivi di portata globale, le campagne stagionali dei grandi brand diventino sempre più anonime e piatte – ma il punto qui non è creare un’immagine iconica ma gareggiare a chi ha la vetrina più grande

Per anni, gli sponsor degli eventi sportivi non riguardavano la moda – o meglio, riguardavano brand legati al mondo aristocratico/altoborghese dell’old money come Rolex ed Hermès, Armani e Ralph Lauren oppure marchi della grande distribuzione a metà tra il preppy e l’atletica come Lacoste, Tommy Hilfiger o Boss. Più normale era il rapporto tra moda, mecenatismo e arte - anche se quando si sviluppò inizialmente non aveva la stessa urgenza presenzialista né la stessa intensa vocazione commerciale. Adesso le cose sono evidentemente cambiate: se per i brand più piccoli una campagna d’impatto può ancora bastare per ottenere la viralità (pensiamo all’ultima campagna à-la-Tom Ford di Amina Muaddi) la stazza raggiunta dai grandi gruppi e dai grandi brand impone loro di giocare su una scala più ampia, di competere a livelli sempre più elevati, ribattezzando intere manifestazioni sportive, monopolizzando i calendari mondani di festival artistici o, come nel caso di LVMH, colonizzando persino Giochi Olimpici e Formula 1. Siamo sicuri che i brand vinceranno questa scommessa? Che le views si tradurranno in vendite? Forse rimane vero ciò che il professore di marketing sportivo Mike Lewis spiegava due anni fa a Forbes, riferendosi agli sponsor del The Masters Golf Tournaments che includono Rolex e Mercedes-Benz in un torneo dove i loghi però sono basicamente invisibili: «Il ROI nelle sponsorizzazioni è ancora un gioco di ipotesi. Di recente è diventato più quantificato, grazie all'aumento della capacità di tracciare le impression, ma il valore delle impression è a sua volta un gioco di ipotesi. Collegare le vendite di un prodotto e l'aumento della brand equity a un evento è talmente carico di ipotesi che probabilmente è più arte che scienza».