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«Misuro il mio successo in termini di impatto culturale», intervista a Harri

Il designer del latex racconta l'ispirazione dietro la sua prima collezione Womenswear

«Misuro il mio successo in termini di impatto culturale», intervista a Harri  Il designer del latex racconta l'ispirazione dietro la sua prima collezione Womenswear
Fotografo
Emily White

I suoi design avviluppano il corpo e si espandono per aria come palloncini multiformi, ma Harikrishnan Keezhathil Surendran Pillai, che in arte si fa chiamare Harri, come il suo omonimo brand, è un creativo con i piedi per terra. Grazie al  suo talento nella modellistica e un passato nel mondo del bodybuilding, Harri si è affermato per il suo approccio originale alla creazione di forme rivoluzionarie e aliene di abiti confezionati in pochissime varianti cromatiche. Perché poche varianti? I motivi sono due: il primo è che è daltonico, il secondo è che il principale materiale che usa, e cioè il latex, gli viene consegnato solo in produzioni campione, quindi nere. Poi viene la creazione degli abiti veri e propri: in passato Harri si è ispirato al bodybuilding, ha provato a immaginare una collezione vista dal punto di vista del suo carlino. Ma per la collezione SS25, vista alla scorsa London Fashion Week, il designer ha guardato fuori dal suo studio: «Stavo facendo una pausa e mi ero messo a guardare gli alberi», ricorda - «Ce ne sono due, ma sono uniti alla radice e quindi sono effettivamente uno solo». Da quell’immagine nascono alcuni dei look recenti più suggestivi, abiti pensati per una coppia di gemelli che si muovono in passerella all’unisono. Con vestiti che abbracciano le modelle mettendo in evidenza le loro curve e dettagli come i capezzoli e gli addominali, con pieghe e rigonfiature che si addossano sui fianchi e sulle spalle come liquido trasparente, la prima collezione womenswear del brand dimostra il talento di Harri nel vestire le donne. Come ci racconta, ha cominciato come designer di menswear - «ho iniziato a studiare moda decostruendo i miei stessi vestiti» - ma il womenswear lo fa sentire più libero.  

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Tra i design più clamorosi realizzati da Harri c'è sicuramente il look indossato da Sam Smith ai Brit Awards del 2013, uno dei lavori più contestati dello stilista ma anche uno dei più emblematici del suo stile. Nonostante nell’ultimo anno sia arrivato a collaborare con artisti e volti del calibro di Bad Bunny, Tommy Cash e Jordan Barrett, la decisione di esordire nel womenswear rappresenta il tentativo da parte di Harri di conservare la propria integrità artistica senza compromettere il valore commerciale dei suoi design. «È questa la moda, no? Unire business e arte», ci dice. Dai primi anni del brand, fondato nel 2017, Harri si è battuto per creare una forte identità artistica, racconta, ma poi è arrivato il momento di pensare alla parte imprenditoriale del mestiere. «È davvero difficile creare abbigliamento maschile con il tipo di cose stravaganti che facciamo», ammette Harri, senza girarci troppo intorno. «Mi sento come se mi scontrassi continuamente con lo stesso muro», e aggiunge: «Gli uomini non hanno una mentalità molto aperta quando si tratta di abbigliamento, e rompere gli stereotipi è un grosso rischio». Specialmente per un brand alle prime armi, verrebbe da aggiungere, eppure del look in latex di Smith se ne parla ancora oggi. 

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Parlando del suo lavoro, Harri non ama definirsi né un artista, né un designer. «Puoi chiamarmi in qualsiasi modo», dice, osservando che la sua figura si trova all’incrocio tra le due sfere: da un lato occorre la maestria, dall’altro l’immaginazione. E se risulta difficile pensare la moda come un’arte, poiché troppo pratica, Harri la pensa diversamente. «La moda è molto più influente e d'impatto dell'arte - afferma - perché il pubblico che apprezza l'arte è molto ristretto, mentre quello che apprezza la moda è molto più ampio. In questo senso, per me è molto più liberatorio esistere nella moda, anche se faccio arte». Accettarsi come artista è stato difficile per Harri, racconta, ma finalmente sente di aver raggiunto l’equilibrio che cercava. «Qualsiasi cosa faccia ora, che sia una collezione commerciale o artistica, è un tutt'uno. Qualsiasi cosa io faccia è la mia arte». In quest’ottica, diventa semplice per il designer trovare una domanda guida per ciascun progetto: «Che impatto posso avere sulle persone che mi circondano? Come posso costruire una community più grande?»

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La consapevolezza che Harri ha maturato nel corso di questi sette anni alla guida di un brand indipendente si riflette anche nella maniera in cui si relaziona alla fashion industry. È un settore che non cambierà mai, dice, perciò l’unica cosa che può fare è migliorare il sistema in cui opera lui stesso, senza pensare agli altri. «Ho una buona cultura nel mio ambiente di lavoro, ho due belle persone che lavorano con me», dice il designer, che da qualche tempo collabora con due neolaureati che, come lui anni fa, hanno voglia di imparare mettendosi all'opera: «La condivisione è la più grande felicità della mia vita». Assieme al suo business partner, un tempo il suo migliore amico ma adesso «qualcosa di più», Harri sta lavorando a costruire una community coesa per il brand, un lavoro di costanza che per lui vale più di qualsiasi altra cosa. «È davvero difficile essere uno stilista in quest'epoca di celebrity endorsement e di grandi trovate marketing», ammette. «Lo span di attenzione delle persone si sta riducendo e ci si aspetta che si faccia sempre di più, il che non è molto salutare». Le riflessioni di Harri, così sagge e ponderate, fanno emergere tutto l’ottimismo che il designer conserva per il futuro, una visione positiva della moda che tutti i creativi emergenti, per quanto si sentano schiacciati dalle aspettative del pubblico e del settore, dovrebbero coltivare. Ma Harri non vuole essere chiamato realista. «Il mio lavoro è di fantasia, non è basato sulla realtà. Non ho progetti da sogno, ma sogno il mio lavoro». E poi aggiunge: «I due gemelli erano un sogno, i tre gemelli erano un sogno: ho bisogno di tempo per sognare».