Il cubismo musicale degli Standing On The Corner
Dopo aver raggiunto il grande pubblico grazie all'ultimo disco di Earl Sweatshirt, il duo/collettivo newyorkese è pronto a lasciare il segno
19 Gennaio 2019
Ho scoperto che il miglior modo di ascoltare gli Standing on the Corner è quello di stare seduti sull’autobus al centro del traffico della città, su un sedile che vi fa dare le spalle al senso di marcia. Per qualche motivo quello è l’habitat naturale della loro musica.
Il perché ha forse a che fare con il senso di straniamento che crea l’andare in avanti stando girati all’indietro, o il fatto che queste due azioni (procedere in avanti e stare seduti) sono estremamente naturali se prese singolarmente, ma del tutto innaturali se messe insieme.
Eppure la vita ci ha abituato al fatto che prevale una logica innegabile nel sedere su un mezzo meccanico che ci trasporta verso dove dobbiamo andare, mentre osserviamo in “reverse" dal finestrino la quotidiana follia della metropoli.
Il progetto Standing on the Corner nasce dall’incontro tra due ventenni che vivono e prendono i mezzi pubblici a New York; il paroliere e compositore Gio Escobar e il produttore Jasper Marsalis. Attorno ai due gravitano collaboratori o semplici amici che operano nei campi più disparati, altri musicisti, grafici, fotografi, artisti e via dicendo. Gli Standing on the Corner hanno all’attivo il debutto omonimo del 2016 e soprattutto l’impressionante “Red Burns”; nell’ultimo anno si sono anche fatti conoscere per aver aperto diversi concerti di King Krule e aver partecipato all’ultimo, fantastico, disco di Earl Sweatshirt , “Some Rap Songs”.
Il loro primo lavoro è una raccolta di circa trenta minuti di strane composizioni a metà fra l’indie, le influenze jazz e l’elettronica in chiave hip-hop - con un uso della tecnica di campionamento decisamente preminente ed originale. Con “Red Burns” la formula non è cambiata di molto, ma si è affinata diventando audace in modo quasi provocante: due soli brani lunghi circa trenta minuti ciascuno, che risultano in più di un’ora di flusso di musica costante e ininterrotto. L’elemento che è più portato all’estremo è quello dei campionamenti e del loro amalgama con le parti “organiche” dei brani o con loro stessi. Se nel primo disco riuscivamo ancora a percepire, seppur spesso molto latente, una rassicurante forma canzone, qui siamo completamente allo sbaraglio, non abbiamo nessun appiglio, galleggiamo in una massa sonora indefinita e avvolgente.
Ascoltarli la prima volta potrebbe creare una sensazione quasi claustrofobica, come se ci trovassimo in una stanza completamente buia e che non conosciamo, così che non sappiamo dove mettere mani e piedi. Ad un certo punto però diventa chiaro che è inutile impazzire nel cercare un centro o un qualsiasi tipo di forma familiare, ma piuttosto che dobbiamo abbandonarci completamente al flusso, come dicevano gli hippy strafatti negli anni sessanta. È proprio in quel momento che si viene a capo della questione e si comincia a godersi il tutto, e la luce si accende come per magia.
Riusciamo ad abbandonarci totalmente alla loro arte dal momento che in “Red Burns” i due sono anche bravissimi a portare avanti un concept preciso che allo stesso non è affatto un concept preciso. Basti pensare che il disco inizia con una voce narrante che dopo aver chiarito che sta parlando dall’America, New York nello specifico, afferma che “la possibilità di respirare è ciò di cui parla questo disco”, dal momento che “qui in molti trovano difficoltà a respirare”: un chiaro riferimento alla tragica morte di Eric Garner, ragazzo afroamericano ucciso per soffocamento, nel 2014, da un poliziotto che lo schiacciava a terra e la cui richiesta disperata di aria “I can’t breathe” è diventata lo slogan del movimento Black Lives Matters ed è campionata nei primi secondi dell’album degli Standing on the Corner. Anche nelle liriche troviamo dunque questa abilità narrativa affine poi alla stessa materia musicale nuda e cruda, la capacità cubista di saper descrivere un paesaggio (in questo caso sociale e politico) usando tutte le sfaccettature e i punti di vista possibili, riunendo tutto nella stessa “immagine”; di veicolare dei temi in modo decisamente intelligente, come spiegato da loro stessi in un’intervista rilasciata a Pitchfork:
“Il campionamento per me riguarda il contestualizzare le canzoni senza risultare banali: come possiamo dire nella nostra musica che le vite nere contano senza strepitare come uno slogan ‘Black Lives Matter!'? Canalizziamo e attiviamo queste cose che fanno progredire la nostra visione, ma mantengono anche la dignità della cosa in esame. Non si tratta di renderla accessibile, ma semplicemente di far sapere alla gente che questa è una cosa che fa parte del mondo. Riguarda la libertà di essere espressivi in modi che non puoi fare quando ti ritrovi in costrizioni imposte da te o da chiunque altro.”
A ben vedere, io che ho la loro stessa età, mi rispecchio perfettamente nella loro musica: in modo allo stesso tempo terribilmente eccitante e angosciante, ovvero proprio come percepisco la mia vita e quella delle persone intorno a me ogni giorno, come fosse un costante esercizio da trapezisti senza rete sotto - proprio la sensazione evocata dalle loro produzioni.
In questo, l’uso estremo e innovativo della tecnica di campionamento, si configura quindi come il modo in assoluto più efficace da me fino ad ora ascoltato nell’interpretare e allo stesso tempo trascendere la nostra contemporaneità, il suo essere, molto banalmente, così frammentaria e confusionaria ma anche pericolosamente affascinante, intrisa di quell’accelerazionismo sfrenato in cui viviamo e di cui siamo contemporaneamente spettatori.
Quello che riescono a fare, è ricongiungere in qualche modo “l’elettronica da cameretta”, ovvero quel mondo di solitudine creativa che ogni ventenne di oggi conosce molto bene (legato al mondo lo-fi), a un panorama urbano che da parte di chi vive una grande metropoli risulta assolutamente evidente fin dal primo ascolto da parte, il quale affonda le proprie radici nell’hip-hop e nella black music più in generale, ma anche nell’art-rock e in un immaginario (attraverso i video, gli artwork o le semplici foto che girano di loro stessi) che sembra l’evoluzione punk e low-budget di quello della prima Odd Future. Qualcosa che hanno confermato loro stessi, sempre nella stessa intervista rilasciata a Pitchfork: "Non siamo solo nelle nostre stanze del cazzo a fare beats: siamo molto influenzati dal mondo esterno e dalla ‘conversazione’ che abbiamo con esso."
Non parliamo di una musica che possono apprezzare solo i ventenni colti.
I brani degli Standing on the Corner sono intrisi di un citazionismo sfrenato che permette a quasi tutti di interessarsi alla loro arte. Non è elettronica futurista e HD che esclude il passato in modo categorico, e nemmeno un revival di suoni già sentiti presentati in modo da sembrare una novità. Siamo di fronte a una formula diversa, eccitante e nuova, che potrebbe essere veramente il primo passo verso qualcosa di estremamente dinamico ed eccitante - in qualche misura ancora grezzo ed embrionale ma dal potenziale incredibile.
Citando paragoni molto scomodi e volutamente provocatori, la prima volta che ho ascoltato questi miei due coetanei, mi hanno provocato un effetto molto simile alla prima volta in cui ho sentito gli Art Enseble of Chicago, o la Sun Ra Arkestra. Un'impressione che se avevo dapprima pensato azzardata, mi è stata in realtà confermata qualche giorno dopo da una puntata del podcast di Earl Sweatshirt in cui insieme a Gio degli SOTC rendevano omaggio proprio a Sun Ra nel giorno del suo compleanno.
Il loro status di cult lo hanno già raggiunto. Vedremo se nel prossimo futuro riusciranno a lasciare un’impronta ancora più profonda, magari portatrice di un lascito artistico-musicale anche solo vagamente simile a quello dei due mostri sacri che ho citato.