A Guide to All Creative Directors

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Cosa pensano i designer dell’AI?

L’abbiamo chiesto ad alcuni dei principali esponenti del design italiano

Cosa pensano i designer dell’AI? L’abbiamo chiesto ad alcuni dei principali esponenti del design italiano

Come ogni industria creativa, anche il design italiano nella storia ha vissuto lunghi cambiamenti, sia da un punto di vista tecnologico che ideologico. Eppure, il punto di forza della progettazione italiana è sempre stato inerente alla relazione imprescindibile con la filiera del Made in Italy. Negli anni, con la democratizzazione da parte di conglomerati internazionali come IKEA, l’idea di design italiano si è trasformata in un termine più elitario e meno del popolo. Ciò nonostante, il Salone del Mobile con il tempo ha generato un intero ecosistema di eventi diffusi per la città – il Fuorisalone – evolvendosi in quella che oggi conosciamo come Design Week. Una settimana che di solito cade a inizio aprile e che rappresenta per Milano una forza economica e sociale imparagonabile. Quest’anno, forse più degli altri anni, il tema del Fuorisalone ha toccato una diatriba fortemente rilevante: l’intelligenza artificiale. Il tema per l’edizione 2025 è “Mondi Connessi”, un’ode all’intelligenza artificiale e all’arte generativa. Una scelta coraggiosa, in un momento storico in cui il binomio arte-AI è tutt’altro che pacifico all’interno dell’industria creativa (basti pensare alla recente bufera che ha coinvolto lo Studio Ghibli o alle polemiche intorno alle modelle virtuali nella moda). Resta però un apparente paradosso: che senso ha parlare di tecnologie avanzatissime e “artificiali” in un panorama che ha sempre fatto leva sulla manualità e sulla sperimentazione empirica? Se anche nel product design si perdesse del tutto la componente artigianale, cosa rimarrebbe della eredità progettuale italiana? L’interrogativo non è di poco conto, soprattutto se pensiamo che i pezzi più iconici del design italiano sono stati concepiti per gradi, attraverso eureka di passaggio e numerosi tentativi. L’Eclisse di Artemide nacque da uno schizzo tracciato da Magistretti su un biglietto della metro; il Juicy Salif di Alessi fu ispirato a Philippe Starck da un piatto di calamari fritti durante una vacanza. Esempi del genere sottolineano come il design italiano abbia sempre tratto forza dalle idee spontanee e dalla sperimentazione manuale. Davvero un algoritmo potrebbe colmare, o addirittura migliorare, quella fase di genesi creativa? In mezzo a opinioni discordanti e discussioni contrastanti sui social, i veri protagonisti di questo conflitto etico sono spesso rimasti ai margini: cosa ne pensano davvero i designer dell’AI? Per provare a capirlo, abbiamo raccolto le voci di alcune delle realtà più interessanti e rappresentative del design milanese.

Sebbene le aspettative iniziali facessero pensare a un forte scetticismo verso l’avvento dell’intelligenza artificiale nel mondo del design, la realtà racconta una storia più complessa. È il caso di Caspal, il nuovo progetto di Biagio Castellani e Federica Paoli nato dopo la chiusura di Situér nel 2024. La transizione non è stata una cesura netta tra i due capitoli della vita lavorativa dei designer, ma un nuovo capitolo basato sull’idea che «l’evoluzione e il cambiamento sono processi inevitabili nella nostra vita, costantemente presenti e in continuo divenire». Per il duo, il tema della Design Week di quest’anno funge da connessione tra le due realtà: «riteniamo che il dialogo tra il design e le nuove tecnologie sia essenziale per il progresso e l’evoluzione, purché l’AI rimanga sempre un mezzo di cui servirci, un tassello di un quadro complesso in cui la componente umana non può mai essere esclusa», affermano. La visione emerge chiaramente anche nella storia del marchio, che ha posto le basi su una conoscenza dell’artigianato dedicato alla lavorazione del metallo ma che lo ha sempre cercato di riproporre in chiave contemporanea. Se in apparenza il legame con l’AI può sembrare distante, in realtà Caspal non rifiuta gli strumenti di intelligenza artificiale – anzi: «utilizziamo l’intelligenza artificiale come uno strumento di supporto, al pari di come utilizziamo un software per progettare o editare», ci dicono. Allo stesso tempo, specificano che «La creatività del designer non può essere sostituita, ma l’intelligenza artificiale può fornire input preziosi per stimolare e arricchire il processo creativo». In questo senso, l’AI viene vissuta come un valore aggiunto, capace di aprire nuove opportunità – tanto nell’ideazione quanto nella produzione industriale, soprattutto in prospettiva di un’Industria 4.0 dove ottimizzare processi e incrementare l’efficienza diventerà sempre più cruciale.

Lo stesso spunto trova eco nel lavoro di Nicolò Ornaghi, Francesco Zorzi e Delfino Sisto Legnani di NM3 Studio, uno degli studi di product design più affermati a Milano, sebbene la loro posizione sull’AI appaia decisamente più avversa. Più che una questione di sfiducia verso la tecnologia in sé, sembra che NM3 fatichi a riconoscersi in quella che definiscono «un’operazione di superficie». Di fatto, i designer milanesi non negano che una forma di intelligenza artificiale possa essere utile come supporto in determinati incarichi – dalla classica funzione scontorno in Photoshop all’eventuale elaborazione di dati complessi nei contesti più avanzati di progettazione e architettura. Al contempo, c’è una convinzione di fondo che per loro resta irrinunciabile: «Nel design, la creatività ha una base di gusto, di esperienza, di cultura compositiva. Se parti da reference sbagliate, anche l’AI produce brutte copie. Se parti da una cultura solida, allora sì, potresti ottenere risultati interessanti». Il discorso, per NM3 Studio, si spinge oltre la diatriba “AI sì, AI no” e tocca temi più ampi: la natura ciclica dell’innovazione, le nuove tecnologie che sono spesso tendenze o la generale superficialità di certe narrative promozionali. Per il duo creativo, l’AI resta ancorata a un sano realismo: potenziale ce n’è, ma la progettazione richiede sempre – e a ogni livello – un bagaglio di competenze, sensibilità e senso critico che una macchina non può replicare da sola. Pur riconoscendo alcuni aspetti positivi dell’AI, Ornaghi e Zorzi non risparmiano critiche pungenti quando ne sottolineano l’uso superficiale o automatizzato: «Per noi l’intelligenza artificiale legata al design è uno scam se usata così, senza controllo e senza cultura alle spalle.»

 
C’è poi chi, invece di schierarsi nettamente tra entusiasti o scettici, preferisce soppesare con cura i pro e i contro delle nuove tecnologie. È il caso di OLDER STUDIO, fondato nel 2013 da Letizia Caramia e Morten Thuesen, una realtà italo-danese che non rientra facilmente nei classici schemi del panorama milanese. L’approccio di OLDER si basa su una profonda attenzione alla sostenibilità e si concentra, oltre che sul design di prodotto, anche sulla produzione di uniformi da lavoro. Un elemento che, al primo sguardo, potrebbe sembrare distante dalle logiche dell’intelligenza artificiale, ma che – come spiegano loro stessi – non è affatto in contraddizione con l’innovazione. «Per noi artigianato, tradizione e A.I. non sono mondi opposti, ma estensioni di uno stesso processo», racconta Thuesen. «L’AI è uno strumento che, se usato correttamente, può aiutarci a ottenere risultati un tempo inimmaginabili, soprattutto se a guidarlo è una forte idea artistica. Nel nostro caso, c’è un legame con l’“Arte Povera”, un’ideologia che punta a infondere anima, qualità e poesia in materiali semplici. Se riesci a far risplendere la bellezza di ciò che è accessibile, hai vinto». È fondamentalmente questa la mentalità condivisa dai designer: se per alcuni la tecnologia può travolgere tradizioni e processi creativi, per OLDER STUDIO l’intelligenza artificiale è «quasi un’ispirazione spirituale, una delle tante strade che guardano al futuro». 

La riflessione sul binomio tradizione-tecnologia, tanto centrale per OLDER STUDIO, si ricollega ai punti già emersi in precedenza: l’AI può ridursi a un semplice rumore di fondo quando viene impiegata come slogan, ma diventa un alleato prezioso se utilizzata al servizio della sensibilità creativa umana. In altre parole, proprio come la scelta di materiali sostenibili e di un’estetica che valorizza la semplicità, anche l’approccio all’AI rappresenta un tassello di una visione più ampia, in cui il “come” conta più del “che cosa”. È forse proprio qui che il tema del Fuorisalone – quest’anno incentrato su tecnologie e arte generativa – rischia di risultare fuorviante. Parlando di “mondi connessi”, infatti, non si vuole tanto sostituire la creatività umana con software e algoritmi, quanto piuttosto favorire una contaminazione virtuosa tra la dimensione analogica e quella digitale. L’idea di mantenere viva la tradizione artigianale italiana, affiancandola a strumenti evoluti, potrebbe rappresentare il vero cuore pulsante del Made in Italy contemporaneo. D’altro canto, però – come avviene in tutti gli ambiti artistico-creativi – l’arte generativa prodotta dalle intelligenze artificiali pecca di sostanza: è triviale. Il design, proprio come il cinema e la musica, mira a comunicare un sentimento (o, nel caso del prodotto, a risolvere un problema) di natura umana. Senza questa componente, l’AI genera soltanto un simulacro. Da qui nasce la controversia sull’uso di ChatGPT per creare immagini in stile Studio Ghibli: i film di Miyazaki sono amati e trasversali a più generazioni perché trasmettono emozioni autentiche. Come sottolineano i designer, l’AI è solo uno strumento, non il fulcro dell’arte. Nel frattempo, la discussione etica e morale attorno all’AI continua a infiammarsi, mentre la Design Week di quest’anno registra numeri da record. Secondo alcune stime del Centro Studi di Confcommercio Milano, il Salone 2025 genererà un indotto di oltre 278 milioni di euro, segnando un incremento dell’1,1% rispetto all’edizione precedente. Alla fine, per la maggior parte dei visitatori, finché c’è un cocktail party in omaggio, la presenza dell’AI nel panorama del design italiano resta un dilemma marginale.