
La “Ghibli Magic” di Chat GPT è il contrario di ciò che Studio Ghibli rappresenta
La nuova feature virale dell’app sta già diventando qualcosa di molto oscuro
28 Marzo 2025
Circa 15 ore fa, l’account ufficiale della Casa Bianca su X ha pubblicato un’immagine di pessimo gusto: un ufficiale dell’ICE, l’agenzia federale che si occupa dell’immigrazione negli USA e che di recente ha deportato e arrestato diversi individui non allineati alle visioni politiche dell’establishment americano, che mette in manette una donna in lacrime. L’arresto è stato reale: la donna si chiama Virginia Basora-Gonzalez, è stata accusata di traffico illegale di fentanyl e l’arresto è avvenuto dieci giorni fa durante un tentativo di rientrare negli USA. Al di là dell’evidente compiacimento con cui i gestori della pagina decidono di affrontare un tema serissimo, l’immagine presenta una disturbante dissonanza: la scena, come si può immaginare, è dramatica ma lo stile del disegno ricorda quello di Hayao Miyazaki e del leggendario Studio Ghibli. L’immagine è stata prodotta usando Chat GPT, con una nuova feature di nome “Ghibli Magic” capace di Ghibli-zzare ogni foto nel giro di pochi secondi che dopo essere stata presentata ieri è diventata virale. Ma nel mezzo degli utenti che la usano per curiosità o scopi più o meno sentimentali (il NY Times racconta di una signora americana commossasi nel vedere le proprie foto di matrimonio “trasformate”) la maggioranza dell’Internet ha deciso che la feature poteva essere usata per altro. L’account della Casa Bianca è l’esempio più sgradevole, ma non è mancato chi, online, ha Ghibli-zzato le foto dell’11 settembre, l’omicidio di George Floyd, il litigio tra Trump e Zelensky nello Studio Ovale, Elon Musk che a una cena ufficiale gioca con le sue posate. Ma Miyazaki è uno degli autori di cui si conservano più citazioni al mondo e praticamente chiunque si è ricordato della scena di un documentario in cui il regista, dopo aver visto un demo di presentazione per usare l’AI nell’animazione già nel 2016, diceva: «Sono assolutamente disgustato. Non vorrei mai incorporare questa tecnologia nel mio lavoro. Ritengo che questo sia un insulto alla vita stessa».
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— The White House (@WhiteHouse) March 27, 2025
Miyazaki è un grande artista, che ha lavorato alla propria arte per tutta la vita. Vedere il nome del suo studio e la sua arte non solo convertiti in un banale giochetto per postare una foto e, ancora peggio, usate per creare contenuti di propaganda politica più o meno occulta oltre che per dipingere alcuni dei momenti più oscuri della storia recente è peggio di una banalizzazione: è un pervertimento. Lo stile dello studio Ghibli, infatti, non è semplicemente un pacchetto di codici estetici ma proviene da un approccio del tutto artigianale al lavoro dell’animazione, con un tipo di attenzione al dettaglio, un livello di immaginosità tale e un uso dei colori così sfumato e delicato da cui non può essere separato. Chi apprezza l’arte dello Studio Ghibili sa benissimo che niente della sua magia sarebbe possibile o anche solo pensabile senza l’assoluto rigore e, come spesso manifestato da Miyazaki stesso, il tormento creativo con cui i suoi creatori lo approcciano. E la banalizzazione di questo stile dovuta all’AI, che ne fa di base l’ennesimo esempio di slop sintetico, può avere effetti anche retroattivi: come ha fatto notare su X il graphic motion editor Fredrik B. «Lo stile Ghibli sta per diventare sovrasaturo e associato a contenuti pigri e noiosi - non vedo l'ora che i bambini crescano pensando che i film Ghibli siano generati da Ai e che invece si tratti di arte realizzata da artisti eccellenti». Evidentemente poi esiste anche un potenziale problema di copyright: non pare corretto (né sappiamo se sia legale o meno) battezzare la nuova funzione proprio con il nome dello studio di produzione che ha inventato lo stile che ora si sta copiando per ricreare meme e produrre propaganda umoristica di estrema destra. L’unica cosa che si sa è che di fronte all’onda della viralità online ci sono poche obiezioni che tengono.
Sam Altman, che è il creatore di ChatGPT oltre che l’ennesimo, controverso miliardario della Silicon Valley, ha scherzato a proposito, dicendo sostanzialmente di aver lavorato alla super-intelligenza per un decennio «per curare il cancro e cose così», facendosi odiare da mezzo mondo solo per «svegliarsi un giorno con centinaia di messaggi: 'Guarda, ti ho trasformato in un twink stile Ghibli haha'». Ma c’è un’altra citazione, attribuita ad Altman ma in realtà presente in una recente proposta di policy sulla regolamentazione della tecnologia negli USA, che dice: «Se gli sviluppatori cinesi hanno accesso illimitato ai dati e le aziende americane sono lasciate senza accesso all'uso equo, la corsa all'IA è di fatto finita. L'America perde, così come il successo dell'IA democratica». Come spiega Futurism, OpenAI sostiene che gli Stati Uniti rischiano di perdere la corsa all’intelligenza artificiale se non potranno più raccogliere dati da materiali protetti da copyright, lasciando così il primato alla Cina. Secondo Ars Technica, citata sempre dal magazine, la società di Sam Altman sta facendo pressioni su Donald Trump affinché introduca normative federali che ridefiniscano il concetto di "fair use", un punto centrale nelle cause legali intentate contro OpenAI dal New York Times e altre aziende editoriali quando hanno scoperto che il modello AI si allena usando i suoi materiali registrati, così come i lavori di numerosi artisti - Miyazaki incluso, ma anche quello dei creatori di South Park.
L’argomentazione è appunto quella di non lasciare che le AI cinesi come DeepSeek, più economiche e sempre più rapide, vincano “la corsa all’intelligenza artificiale”. Il che però è un enorme dilemma morale dato che i modelli AI spesso generano risposte che sfiorano la violazione diretta del copyright. La soluzione proposta da Altman è rielaborare la dottrina del "fair use", facendone una questione di "sicurezza nazionale" anche se è difficile non notare i due pesi e le due misure usate da Altman che, tramite OpenAI, ha accusato proprio DeepSeek di aver utilizzato i suoi dati senza autorizzazione—un dettaglio che non viene deliberatamente menzionato nella proposta per le ragioni che immaginiamo. Il dilemma è accresciuto dal fatto che per molti versi la tecnologia delle AI rappresenta un validissimo aiuto e supporto per numerosi ambiti del lavoro, della scienza e della tecnica. Il “patto faustiano” che però l’AI propone consiste, sostanzialmente, nel lasciare che questa tecnologia così potente e spesso utile cannibalizzi le opere di centinaia di migliaia di artisti automatizzandone le skill, riducendo la creatività a un pezzo di codice. L’uso che il pubblico fa di queste feature più “creative” dell’AI ha forse il pregio di portare l’arte più alla portata di tutti ma allo stesso tempo la trasforma in un filtro da provare come passatempo, un prodotto occasionale e temporaneo, prodotto senza sforzo o competenze, fatta per produrre una creatività completamente banale e derivativa. Artisticamente parlando, è un inferno postmodernista. Parafrasando il famoso meme, potremmo dire che il mondo ideale è quello dove gli esseri umani possono dipingere e scrivere poesie mentre l’AI si dedica alle banali incombenze della vita quotidiana – mentre è molto più distopico un futuro in cui sono gli esseri umani a dover svolgere questi lavori mentre un computer dipinge e scrive poesie.