A Guide to All Creative Directors

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“Holland” e l’estetica dei suburbs USA al cinema

Mentre su Prime Video esce il film con Nicole Kidman, un reminder per ricordare che non è tutto oro ciò che luccica

“Holland” e l’estetica dei suburbs USA al cinema  Mentre su Prime Video esce il film con Nicole Kidman, un reminder per ricordare che non è tutto oro ciò che luccica

In film come Holland il presupposto con cui parte la visione dello spettatore è che nulla è come sembra. Sotto la patina di agio e tranquillità della cittadina deve esserci per forza un segreto che è ciò su cui si basa poi l’intrigo della storia, andando a distruggere le convinzioni e la sicurezza dei protagonisti, che verranno lentamente fuori dal proprio inganno. Ha però qualcosa di insolito la pellicola scritta e diretta da Mimi Cave, di ritorno su Prime Video dopo aver debuttato nel 2022 con Fresh, ovvero che la risoluzione dell’opera non riguarda il luogo che dà il titolo al film, ma la sfera personale della protagonista. Quando ci si trova di fronte a simili operazioni, infatti, è l’intero castello di carte che crolla mostrando un retrobottega pieno di scabrosità e segreti, mentre stavolta è semplicemente l’esistenza del personaggio di Nancy interpretato da Nicole Kidman a cadere rovinosamente, lasciando intaccata l’aurea idilliaca di Holland, in Michigan. Una soluzione che controverte ciò che il cinema spesso ci ha insegnato: il dover prestare attenzione non solamente alla vita privata dei personaggi principali, ma al contorno che li circonda. Di solito una maschera indossata da un’intera città, da un paese, un villaggio, anche solo un quartiere, che nasconde dinamiche silenziose che condizionano l’andamento e la quotidianità (extra) normale dei suoi abitanti. È perciò curioso vedere dove va a parare l’Holland di Mimi Cave, nonostante una débâcle finale raggiunta non per questo suo disattendere le regole del genere, ma per un ritmo claudicante che non aiuta lo spettatore. E che vedeva in Nicole Kidman una scelta azzeccata per interpretare il ruolo della protagonista, lei che in paesini improbabili e in società dalle leggi imposte ha vissuto svariate volte sul grande schermo, dal mondo impeccabile di La donna perfetta alla claustrofobia d’autore del Dogville di Lars Von Trier. 

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Il primo titolo è il remake della trasposizione del film del 1975 La fabbrica delle mogli, tratto dal romanzo omonimo di Ira Levin e riproposto diretto da Frank Oz nel 2004. Kidman è la manager e produttrice televisiva Joanna, sfuggita da un pericolo che l’ha portata a trasferirsi a Stepford, nel Connecticut, dove si accorgerà presto che tutte le donne della cittadina sono pressoché identiche. In Dogville la situazione non è altrettanto incantevole. Sebbene con uno strisciante e preoccupante enigma sotto, la situazione di pericolo è da subito più evidente, con la violenza che diventa più immediata dopo un iniziale periodo di semi-quiete. Ma è il concetto del circuito chiuso che caratterizza un tipo di pellicola fatta per intrappolare il/la protagonista e di cui il pubblico deve sperare di poter vedere la fuga. Una situazione di confort dove si cominciano a cogliere piano piano i segnali. L’inganno che Wanda Maximoff aveva lanciato nella serie WandaVision per Disney+, solo che in quel caso il tranello lo aveva fatto e pensato principalmente per se stessa.

 

Se a volte la decisione di impostare queste ambientazioni è semplicemente per creare un forte contrasto con i discorsi o i racconti dei film, altre è per portare a galla tematiche che troppo di frequente lasciamo ribollire sotto la superficie, destinate poi a scoppiare. Tra i casi emblematici dei paesini o dei famosi suburbs americani che vengono utilizzati come teatro per storie torbide c’è il Velluto Blu che si apre con l’iconica staccionata bianca e le rose rosse, diventati il simbolo della pace e della tranquillità di una realtà statunitense che, in verità, copre solo il marcio di una vicenda che David Lynch scioglie tra sesso, violenza e nightclub. Un po’ come i suoi diner e le apple pie di Twin Peaks. Mentre sul versante metaforico il caso più recente è il Don’t Worry Darling che è stato paragonato proprio a La donna perfetta con Nicole Kidman, con la protagonista stavolta impersonata da Florence Pugh in un contesto anni Cinquanta in cui interpreta la moglie e casalinga per antonomasia - con i 50s presi di frequente come periodo temporale in cui si erigono simili narrazioni.

Incastrata in una routine che comincia a scricchiolare, la regista Olivia Wilde su sceneggiatura di Katie Silberman crea attorno alla protagonista Alice/Florence Pugh un mystery in cui vengono celati abusi e costrizioni. Una prigionia in cui è la lotta alla parità di genere che viene del tutto annullata e che il personaggio dovrà riacquistare, anestetizzata e ritornata bruscamente alla vita vera accorgendosi che tutto ciò che sta vivendo è una farsa sessista e maschilista. Se in Don’t Worry Darling la reclusione è una circostanza dettata da terzi, lo è a metà nel caso del The Village di M. Night Shyamalan, in cui è la collettività ad essersi mossa al fine di proteggere se stessa, incappando nei dubbi di alcuni abitanti su cosa c’è di reale o meno nella loro cerchia isolata e bucolica. È senz’altro una mistificazione, soprattutto per la protagonista Ivy Walker (Bryce Dallas Howard), ma è altresì l’opzione di una vita alternativa a cui però non è detto che tutti abbiano accettato di partecipare. 

Se si vuole trovare un titolo che si avvicini di più all’Holland di Mimi Cave c’è il Suburbicon di George Clooney, uscito nel 2017 e scritto dai fratelli Joel e Ethan Coen con protagonisti Matt Damon e Julianne Moore. Nel film con Nicole Kidman si apprende che in fondo la vita della protagonista è effettivamente lieta se non fosse macchiata dal segreto indicibile di suo marito (interpretato da Matthew Macfadyen), con la cittadina che alla fine è un luogo di pace dove, tuttavia, non si sa bene cosa sia o no reale. In Suburbicon avviene più o meno lo stesso. È comunque ovvio che la gentilezza e l’eccessiva convivialità del sobborgo statunitense debbano necessariamente celare una stortura - quella che Tim Burton rendeva visibile con la presenza del suo Edward mani di forbice nella periferia americana degli anni Settanta - e che nell’opera di Clooney trasforma l’everyday man di Damon in un padre che farebbe di tutto per proteggere la propria famiglia, ma ancor di più i propri interessi. Mentre infatti il film mette in scena una xenofobia tacita e strisciante, fondamenta su cui si costruisce la struttura della storia, vediamo il protagonista Gardner Lodge/Matt Damon agire per il proprio tornaconto, tirando le fila di un racconto dalle tinte di ispirazione hitchcockiana. E in cui il punto rimane sempre lo stesso: mai fidarsi di ciò che in apparenza sembra perfetto. Potrebbe esserci di mezzo una qualche cospirazione o, perché no, persino un delitto.