A Guide to All Creative Directors

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Gli autori delle canzoni di Sanremo sono sempre gli stessi?

Non è un complotto, è solo puro e sano capitalismo

Gli autori delle canzoni di Sanremo sono sempre gli stessi? Non è un complotto, è solo puro e sano capitalismo

Il Festival di Sanremo 2025 non è ancora iniziato, ma le polemiche, come da tradizione, sono balzate agli onori delle cronache con largo anticipo. Prima c’è stata la diffida del Codacons nei confronti della Rai e del nuovo direttore artistico del Festival, Carlo Conti, ad introdurre una sorta di “daspo” per gli artisti che in passato si sono contraddistinti per i loro testi violenti o sessisti. Poi c’è stata la questione della presunta censura di Carlo Conti nei confronti dei temi politici e sociali: «niente guerra e immigrazione» aveva raccontato nella puntata del 26 novembre 2024 del podcast musicale Pezzi: dentro la musica, a cura di Luca Dondoni, Andrea Laffranchi e Paolo Giordano. Il conduttore del Festival, in realtà, non stava ponendo un divieto, ma semplicemente raccontando che tipo di canzoni erano arrivate dai vari artisti erano in larga misura di natura intimista. Infine, settimana scorsa, è scoppiata la polemica sull’ipotetico “cartello” messo in piedi dai principali autori delle canzoni in gara. A lanciare l’allarme è stato un articolo del Il Sole 24 ore, pubblicato il 21 gennaio, in cui si faceva notare, con toni piuttosto sarcastici, che circa il 66,6% delle canzoni in gara - cioè 20 canzoni su 30 - erano state scritte dagli stessi 11 autori. Tra questi spiccano Federica Abbate che pone la sua firma su ben sette brani e Davide Simonetta che invece arriva a quota cinque. A seguire ci sono Jacopo Ettorre, Davide Petrella (detto «Tropico») e Nicola Lazzarin (detto «Cripo») con quattro brani a testa, Luca Faraone, Michele «Michelangelo» Zocca, il producer Stefano «Zef» Tognini e il cantante Blanco con tre canzoni ciascuno e infine Paolo Antonacci (figlio di Biagio) e Shablo con “solo” due pezzi per uno.

 

Non si può, certo, parlare, di “inchiesta” perché in realtà il nome degli autori delle canzoni è pubblico e basta comprare Tv Sorrisi e Canzoni per leggerne l’elenco completo. A dire il vero, non si può parlare nemmeno di chissà quale “scoop” perché la questione ormai è storia nota ed era già emersa l’anno scorso. Il primo a sollevare pubblicamente il tema era stato Morgan, col famoso “Annalisagate” di X Factor: in sostanza, durante una puntata live del programma, l’ex cantante dei Bluvertigo aveva dichiarato che Bellissima di Annalisa era una canzone «di grande banalità dal punto di vista armonico», se non addirittura «armonicamente inesistente». Il produttore e co-autore del brano Davide Simonetta (detto “il re mida del pop”) aveva subito replicato con un post piccato su X rivolto direttamente a Morgan: «Mai un successo e spiega cose. Che mondo splendido». A quel punto Morgan aprì il vaso di pandora, dichiarando, in una lettera aperta a Rolling Stone Italia, che a suo modo di vedere in Italia esiste «un’industria discografica limitata e clientelista che […] commissiona la scrittura delle canzoni sempre agli stessi quattro», ragion per cui può capitare tranquillamente che qualcuno «scriva le canzoni di sei, sette, otto concorrenti di uno stesso concorso», riferendosi esplicitamente a Sanremo. Purtroppo avendo usato i modi e i toni sbagliati, le sue dichiarazioni erano passate senza colpo ferire e giudicate, nella maggior parte dei casi, come il delirio di un pazzo. Poco più di un anno dopo, un altro famoso giudice di X Factor (nonché leader degli Afterhours) - Manuel Agnelli - darà ragione a Morgan, dichiarando letteralmente che al giorno d’oggi «i testi sono scritti dagli stessi team di autori, in questo Morgan ha ragione. È un appiattimento che funziona per l'algoritmo, ma non per la creatività.»

Dunque è per questo che le canzoni del festival da un po’ di anni a questa parte sembrano tutte uguali? Perché a scriverle ormai sono sempre le stesse persone? Difficile affermarlo con assoluta certezza, non è un’equazione matematica, ma facendo un ragionamento puramente teorico è abbastanza plausibile ipotizzare che l’avere una minoranza di autori che scrive la maggior parte delle canzoni possa portare a una minore varietà delle stesse, sotto vari punti di vista, melodico, armonico, ritmico e lirico. In soldoni era più o meno questa l’opinione più diffusa della critica emersa già all’indomani del festival di Sanremo dell’anno scorso, caratterizzato dal cosiddetto fenomeno del “cene-rap” - come lo aveva definito Emiliano Colasanti della 42 Records in un famoso articolo de Il Post - ovvero il fatto che molte canzoni portate al festival dai rapper assomigliassero un po’ troppo a Cenere di Lazza, che l’anno prima era arrivata seconda. A scriverla era stato Davide Petrella, che in quello stesso anno aveva scritto anche Due Vite di Marco Mengoni, la canzone vincitrice. Petrella è talmente noto nell’ambiente da essere finito anche dentro un dissing di Marracash contenuto nel suo brano Power Slap, tratto dal suo ultimo album, in cui a un certo punto dice:  «E ogni anno si abbassa l’asticella/Provo a farci il limbo con la testa tocco terra/Ti ricordo, bimbo, chi saresti con ‘sta sberla/Senza Sanremo, senza l’estivo, senza Petrella”.»

 

Ma quindi è vero che esiste una sorta di cartello mafioso, in cui una cricca di pochi autori eletti si spartisce il mercato discografico italiano a discapito degli altri? No. Questa è semplicemente la visione complottista della storia. In realtà, la situazione vista a Sanremo - non oggi, ma da un po’ di anni a questa parte -  non è altro che il risultato del modo in cui funziona il mercato discografico attuale. Un mercato in cui girano molti meno soldi rispetto al passato e che per questo sempre più spesso si appoggia anche ad altri mercati più redditizi, come eventi, concerti, pubblicità, diritti tv e merchandising. Le etichette discografiche oggi devono fare i propri investimenti in maniera più oculata rispetto al passato: non esistono più i talent scout assoldati dalle case discografiche per cercare nuovi talenti nei piccoli club. Anche perché nessun nuovo talento oggi pensa di esibirsi nei piccoli club. I nuovi talenti oggi sfruttano le potenzialità della rete ed esplodono su Instagram, su YouTube, su TikTok, o al limite attraverso i talent show. Bisogna streammare, avere follower, fare visualizzazioni, avere i numeri per destare interesse. In questa nuova dimensione gli autori hanno acquisito sempre maggiore importanza: sono loro che si propongono a questi nuovi artisti emergenti, spesso giovanissimi e impreparati ad affrontare il grande mercato, offrendosi di scrivere loro altri brani “sicuri”. Sicuri di cosa? Di diventare una Hit.

Per gli autori chiamati in causa da Il sole 24 Ore, la questione non si pone neanche; come aveva dichiarato ai tempi un altro dei magnifici 11, Jacopo Ettorre (salito agli onori della ribalta nel 2019 per aver scritto l’inno di Benji & Fede Dove e quando): «Bisogna costruirsi un curriculum, più o meno come in tutti i mestieri: se scrivi canzoni premiate a livello di ascolti, sei più richiesto sul mercato e hai la possibilità di allargare moltissimo le tue collaborazioni». L’esempio più virtuoso di quest’affermazione è quello rappresentato, in campo internazionale, da Max Martin, il produttore svedese che negli ultimi vent’anni ha sfornato il maggior numero di successi pop a livello mondiale. Dagli anni ’90 ad oggi ha scritto e prodotto una lunghissima serie di brani pop che sono finiti primi in classifica, da Britney Spears a Taylor Swift, passando per Backstreet Boys, Christina Aguilera, Avril Lavigne, Pink, Katy Perry, Ariana Grande, Lana Del Rey, The Weeknd e tantissimi altri. Pare azzardato paragonare a questi mostri sacri gli autori italiani su menzionati. Eppure le case discografiche italiane sembrano fidarsi ciecamente di loro. Ma ciò di cui si fidano ancora di più, in realtà, sono i dati di ascolto forniti dalle piattaforme di streaming.

Nel suo saggio intitolato Poptimism - Media algoritmici e crisi della popular music il sociologo Massimiliano Raffa si addentra nei meandri degli algoritmi che regolano le principali piattaforme di streaming musicale (Spotify, Apple Music e Amazon Music) svelando, attraverso un metodo incrociato di dati quantitativi e interviste qualitative, rilasciate in forma anonima da professionisti del settore, come le piattaforme monitorino gli ascolti del pubblico, acquisendo una quantità enorme di dati su “cosa” ascoltiamo, ma anche e soprattutto sul “come” ascoltiamo: ad esempio quando e “perché” skippiamo una canzone. Tutte queste informazioni possono poi essere vendute e usate per ri-creare altre canzoni che “funzionano”, ma che sono in qualche modo sempre più uguali a sé stesse. In pratica gli autori e gli algoritmi sembrano andare insieme nella stessa direzione di omologazione. C’è una soluzione? Probabilmente sì, ma come le Città Invisibili di Calvino, non si riesce ancora a vedere e allora forse questa soluzione potrebbe essere proprio quella che proponeva lo stesso scrittore, ovvero «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Del resto, d'una città - così come di una canzone, non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.