A Guide to All Creative Directors

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Gli anni 2000 sono difficili da portare al cinema?

Da "Il migliore dei mondi" a "I Saw the TV Glow", come immaginiamo il futuro-passato

Gli anni 2000 sono difficili da portare al cinema? Da Il migliore dei mondi a I Saw the TV Glow, come immaginiamo il futuro-passato

È arrivato il momento: gli anni Duemila stanno tornando. Basta guardarsi intorno. Tornano di moda le french nails, la vita alta sta lasciando spazio alla vita bassa e sui social spopolano trend e oggetti appartenenti al passato, come gli scooby-doo diventati ora accessorio di lusso e il boom dei Sonny Angel, gadget-portafortuna nati dal giapponese Tory Soeya nel 2004. Persino i divi ritirando fuori baggy jeans e cappellini da baseball scoloriti, ambasciatori di un’epoca che credevamo conclusa e invece eccola riproposta da Timothée Chalamet durante il press tour del suo ultimo A Complete Unknown. Uno stile che ha indubbiamente un collegamento con l’estetica di Bob Dylan, di cui veste i panni nel film diretto da James Mangold, ma che sembra non andare così lontano dalla moda che ci attenderà nei prossimi mesi e di cui la Milano Fashion Week 2025 è stata un’anticipazione. Tutti segnali evidenti dell’addio alla nostalgia anni Ottanta in cui ci aveva catapultato Stranger Things e che sembra ormai aver fatto il proprio corso, con anche i 90s sorvolati con imprevedibile velocità soprattutto per ciò che riguarda i prodotti e le tendenze culturali. Un decennio che non ha avuto il medesimo exploit del precedente e, a quanto pare, destinato a lasciare o spartirsi lo spazio con tutto ciò che venne dopo il Millennium Bug. Lo mostrano con evidenza le produzioni cinematografiche, nazionali e internazionali, che ultimamente hanno scelto di collocare in quel lasso di tempo i loro film, abbinandoli spesso a generi che richiamano il senso di paura e sconvolgimento che gli anni 2000 si sono portati dietro. Una decisione che conduce ad optare anche per il surreale, provando a raccontare attraverso la fantasia cosa sarebbe potuto succedere allo scoccare della mezzanotte tra il 31 dicembre e il 1 gennaio del nuovo anno. Anche The Palace di Roman Polański potrebbe rientrare in questa categoria: ambientata la notte di Capodanno 1999, pur essendo solamente una commedia, l’opera è il tonfo più sonoro della carriera del regista polacco, ascrivibile alle stranezze (non piacevoli) esplorate in simili produzioni proprio perché fuori da qualsiasi orbita.

Un comico che, invece, ha saputo trovare il giusto tono da utilizzare è stato Maccio Capatonda e lo ha fatto nel suo Il migliore dei mondi, uscito nel 2023 su Prime Video. La storia di un mondo rimasto indietro a livello tecnologico proprio dopo il panico suscitato dal Millenum Bug, col protagonista che si ritrova trasportato in una realtà priva dell’avanzamento tecnico in cui siamo oramai immersi. Un film che utilizza l’umorismo per dirci che, in fondo, non è merito della tecnologia se si sta meglio o peggio. Siamo tutti destinati a commettere degli errori, a ribellarci, a innamorarci, e poco importa se lo facciamo con l’uso di una connessione internet o meno.  Un’opera che prende la stessa data, lo stesso evento, con risvolti sempre fantascientifici, ma stavolta dalle sfumature semi-horror è Y2K di Kyle Mooney. Scritto dal regista insieme a Evan Winter, col titolo che è la sigla con cui gli inglesi si riferiscono agli anni 2000, il film racconta di un gruppo di giovani che non sanno cosa fare a Capodanno e finiscono per lottare contro robot assemblati con parti di computer e quant’altro. Un’opera che, però, non ha riscosso l’atteso successo, definito un pasticcio in cui non bastano un paio di Ugg per richiamare l’atmosfera di quegli anni (secondo il The Wall Street Journal), come non basta qualche trovata gore o del divertissement qua e là per non dare l’impressione di trovarsi di fronte a uno sketch andato troppo per le lunghe. Ciò che viene rimproverato all’opera è l’aver adottato la solita tecnica del pentolone in cui buttare riferimenti, citazioni o oggettistica a caso, tutto pur di suscitare una qualche facile reazione negli spettatori, che sia in chi ha avuto a che fare davvero con i primi CD o cellulari Nokia o in chi ha una vena da collezionista e si sente molto più attratto da ciò che è vintage. Un metodo che, però, rischia spesso di incappare nel semplice riciclo vuoto e privo di storia, e non bastano una serie di rimandi a «surge soda, Tae Boe, suoni di connessione remota e Nintendo 64 per fare un film», come affermato dal Detroit News sempre parlando di Y2K

Sarà per questo che i migliori film ambientati agli inizi degli anni Duemila sono gli stessi che non parlano strettamente degli anni Duemila. Dove il Millenum Bug o ciò che ruota loro attorno non è l’elemento principale. Un’ambientazione che spesso viene scelta dagli sceneggiatori e registi non solo per suscitare nello specifico quel tipo di immaginario, o location, o cultura, ma semplicemente per togliere l’impasse di doversi confrontare ogni volta con cellulari, social e continue interfacce digitali. Un thriller in cui non è possibile cercare i sospettati su Facebook o vedere l’ultima cosa che hanno postato aiuta ad allungare la storia, rispetto a trovare con più velocità informazioni sul colpevole attraverso una barra di ricerca. Per le app-date e le rom-com pure. Forse è anche per questo che uno dei titoli più suggestivi che raccontano dello scavalcamento del secolo usciti nel 2024 è I Saw the TV Glow di Jane Schoenbrun, dove il tempo che passa è una bolla che aleggia e indaga facendo avanti e indietro grazie al tubo catodico, mettendoci di fronte alla nostra realtà di spettatori prima che cominciasse l’era del binge watching. Un film su una serie tv, la preferita dei protagonisti Owen (Justice Smith) e Maddy (Brigette Lundy-Paine), che diventa parte della quotidianità dei ragazzi, quasi un’ossessione. Un portale su un cosmo che comincia a contaminare la realtà, incrinandola e stravolgendola. Un’opera che, tra le sue teorie, vede prevalere e confermare nella differenza tra il mondo reale e finzionale e la loro graduale contaminazione il racconto della transizione dei personaggi. Un film di cui subiamo il fascino degli anni tra i 90s e i 2000, ma la cui nostalgia non viene ostentata, bensì diventa insita nel processo di narrazione e di trasformazione (o meno) dei personaggi. Non a caso il più grande film sulle teorie transgender è proprio Matrix uscito nel 1999, data-simbolo di un passaggio da un anno ad un altro, dall’analogico al digitale, ma anche da un mondo che si conosceva ad uno del tutto sconosciuto. Se il cinema e la televisione possono e devono dunque imparare qualcosa dai prodotti che ci hanno accompagnato in questi ultimi anni, dal citato show Netflix che si concluderà proprio quest’anno con Stranger Things 5 al jukebox citazionistico di un Ready Palyer One di Steven Spielberg, ambientato nel futuro ma con riferimenti culturali ben radicati nel passato, è che non basta solo sfoggiare un Tamagotchi o un Motorola per conquistare il pubblico. Cascasse il mondo, c’è sempre bisogno di una storia, non esiste Millenium Bug, apocalisse tecnologica o rivolta dei computer che tenga.