Le piattaforme di streaming musicale stanno appiattendo i gusti degli utenti?
Tutta colpa delle playlist a tema e delle “canzoni d’atmosfera”
04 Gennaio 2025
Secondo diverse inchieste giornalistiche, servizi come Spotify da diversi anni starebbero incentivando – più o meno direttamente – un ascolto passivo e di sottofondo delle proprie playlist, soprattutto quelle dedicate a generi come il jazz o la musica ambient. L’obiettivo sarebbe quello di favorire lo streaming delle cosiddette “canzoni d’atmosfera”, che sono pensate per essere fruite mentre si è impegnati in altre attività – non a caso sono quasi sempre esclusivamente strumentali. Questi brani sono per lo più presenti all’interno di playlist generate ad hoc dalle piattaforme, proposte appositamente per rispondere a precise esigenze degli utenti, come nei casi delle raccolte di Spotify “Lo-Fi House” e “Chill Instrumental Beats”, tra le molte. Di recente Harper’s Magazine ha pubblicato un’inchi\esta che sembra confermare molti dei sospetti rivolti da tempo ai servizi di streaming musicali, in particolare a Spotify. Si tratta dell’estratto di un libro che la stessa autrice dell’articolo – la giornalista statunitense Liz Pelly – ha scritto sul tema: si intitola Mood Machine – The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist ed è in uscita negli Stati Uniti a gennaio 2025.
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La strategia di Spotify, secondo quanto si legge su Harper’s Magazine, sarebbe stata per anni quella di influenzare i gusti degli utenti in modo da spingerli a utilizzare maggiormente le playlist come sottofondo per le loro attività. Anche per questo motivo, la piattaforma avrebbe incentivato la scoperta di tali raccolte basandosi principalmente sull'immaginario e sul "mood" evocato, più che sugli artisti e le canzoni presenti al loro interno. Spotify avrebbe così potuto popolare le sue playlist di cosiddetti "fake artist", che collaborano con la piattaforma per produrre una grande quantità di brani da sfruttare in playlist d’atmosfera come per esempio la celebre “Stress Relief”. L’operazione consentirebbe a Spotify di risparmiare sui diritti d’autore da versare ai veri musicisti, grazie per l’appunto ad accordi preliminari e più vantaggiosi con i compositori selezionati, incaricati di realizzare molte delle tracce presenti nelle raccolte più popolari della piattaforma. Alla base di questa strategia ci sarebbe un programma ben definito, chiamato "Perfect Fit Content" (PFC), che tra le altre cose punterebbe ad aumentare la quantità di musica disponibile sulla piattaforma riducendo i costi che sostiene l'azienda per coprire le royalty. Secondo quanto riporta Harper’s Magazine, nel 2023 circa 150 playlist di Spotify – tra cui alcune molto seguite come “Ambient Relaxation”, “Deep Focus”, “Cocktail Jazz” e “Deep Sleep” – sarebbero state popolate da molti brani prodotti in quest’ottica.
Come si è arrivati a questo punto
Per capire come Spotify sarebbe arrivata a ospitare sulle sue playlist anche tracce realizzate da possibili fake artist è necessario guardare alla genesi dell’azienda. Fondata nel 2008 in Svezia, Spotify è nata con l'intento di offrire un accesso pressoché illimitato a un vasto archivio musicale tramite una sottoscrizione mensile. Inizialmente, infatti, il CEO e fondatore del servizio, lo svedese Daniel Ek, era contrario all'idea di una piattaforma che suggerisse brani o playlist – per questo, la prima versione di Spotify dava grande importanza alle scelte degli utenti, mettendo in risalto la barra di ricerca. Di fronte alla necessità di aumentare i propri guadagni, il servizio negli anni è cambiato molto, arrivando nel 2012 a offrire consigli d’ascolto in base all’umore e alle attività svolte. Due anni più tardi l’azienda incrementò gli investimenti nelle tecnologie usate per migliorare gli algoritmi delle piattaforme di streaming musicale, in modo da consigliare brani agli utenti in relazione ai loro ascolti. In quel periodo l’azienda presentò il progetto come una grande opportunità per gli utenti e gli appassionati di musica: l’occasione di ridurre l'influenza delle case discografiche sui loro ascolti.
i've officially stumbled upon the weirdest thing i've ever seen.
— Adam Faze (@adamfaze) April 18, 2023
on a spotify radio this week, 1 song annoyingly kept playing. except every time I looked, it was a different song name and artist entirely.
so I started keeping track. here's 49 of them.https://t.co/VrmYPyQQqg pic.twitter.com/ejrwf11Oc6
Eppure, fin dalla sua fondazione, Spotify è stata fortemente influenzata da alcune delle principali major attive a livello globale: Sony, Universal e Warner, ad esempio, possedevano già il 17% dell’azienda al momento del lancio sul mercato. Le case discografiche avevano insomma un certo potere contrattuale con l’azienda, e guadagnarono molto dal suo successo. Spotify per molti anni non ha mai generato profitti, dovendo destinare a etichette ed editori circa il 70% dei suoi guadagni. Anche per questo, l’azienda si è più volte vista costretta ad aumentare il prezzo degli abbonamenti. Tuttavia, a partire dal 2016 – come raccontano numerose inchieste giornalistiche – Spotify avrebbe iniziato a tentare di influenzare maggiormente i gusti dei suoi iscritti, in modo da spingerli verso le playlist predefinite, popolate in teoria da diversi fake artist, risparmiando così sui diritti d’autore. Il risultato, però, sarebbe stato quello di incentivare una modalità di ascolto passiva e poco impegnata, appiattendo i gusti di molti utenti. Harper’s Magazine ha detto di aver parlato con un musicista che realizza brani d’atmosfera che poi vengono distribuiti in alcune playlist di Spotify, e il consiglio che riceverebbe per questo tipo di contributi sarebbe sempre lo stesso: devono “suonare” il più easy possibile.