Che cosa significa “brain rot”?
Se conosci la parola, allora probabilmente ti riguarda
02 Dicembre 2024
I social hanno cominciato a friggerci il cervello. I nonni e i genitori lo dicevano e non gli abbiamo dato ascolto. Adesso però il mondo dei social e dell’engagement digitale, con la sua cultura metareferenziale, con i suoi meme che rimbalzano da un angolo all’altro del pianeta e soprattutto con le sue parole incomprensibili per chi vive solo nel mondo offline (pensate di spiegare a un anziano parente cosa significa “Hawk Tuah” o perché la zia che alza il gomito al pranzo di Natale è “brat”) sta prendendo il sopravvento. Ecco perché oggi la Oxford University Press ha scelto “brain rot” come Parola dell’Anno 2024. Selezionato attraverso un voto pubblico che ha coinvolto oltre 37.000 partecipanti, seguito da una deliberazione di esperti linguistici, il termine “brain rot” è emerso come la migliore rappresentazione delle preoccupazioni che turbano la nostra società. Tra il 2023 e il 2024, secondo il New York Times, l’uso del termine "brain rot" ha registrato un aumento del 230%, spinto dalla sua diffusione su piattaforme come TikTok e Twitter (ora X). Inizialmente adottato dalle comunità online come espressione umoristica o autoironica, il termine ha assunto un significato più ampio, riflettendo le crescenti preoccupazioni sugli effetti negativi della sovraesposizione digitale, soprattutto tra le generazioni più giovani. Le sue connotazioni (che descrivono sia la causa che l’effetto del declino intellettuale o cognitivo che tutti noi stiamo attraversando collettivamente) lo rendono una scelta molto calzante per un anno definito da discussioni sempre più approfondite sull’impatto della tecnologia sulla mente umana, sulla salute mentale, su come le dinamiche sociali siano state alterate dall’anonimato dei social media, dall’impennata di violenza tra i giovani.
Qual è l’origine del termine “brain rot”?
@heidsbecker Part 3!!! Brainrot bestie on another date
original sound - Heidi Becker
Secondo l’Oxford English Dictionary, "brain rot" si riferisce al «supposto deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona, specialmente visto come il risultato del consumo eccessivo di materiale (ora in particolare contenuti online) considerati banali o poco stimolanti.». Inoltre, il termine descrive anche i contenuti stessi percepiti come probabili cause di tale deterioramento, includendo sia il mezzo sia gli effetti psicologici. La storia di “brain rot” risale a quasi due secoli fa, molto prima delle sue associazioni contemporanee con i social media e i meme virali. Il primo uso documentato del termine risale al 1854, in Walden di Henry David Thoreau. Nel celebre libro, Thoreau critica l’inclinazione della società verso una certa apatia intellettuale, chiedendo: «Mentre l’Inghilterra si impegna a curare la peronospora, nessuno si impegnerà a curare il marciume cerebrale, che prevale molto più ampiamente e in modo più fatale?» Per Thoreau, "brain rot" simboleggiava l’erosione del pensiero critico e la preferenza per idee semplicistiche rispetto a un coinvolgimento intellettuale reale, sfumato e soprattutto serio e maturo. Con l’avvento dell’era digitale, le preoccupazioni di Thoreau hanno trovato una nuova rilevanza. Sebbene la sua critica fosse radicata nel contesto filosofico e culturale del suo tempo, oggi “brain rot” si riferisce più direttamente al consumo implacabile di contenuti superficiali online comememe, video virali, articoli sensazionalistici, e simili che dominano gran parte della vita moderna. Questa evoluzione del termine ne sottolinea l’adattabilità e la sua importanza duratura.
The way I am so chronically online - the brain rot is real. I cannot respond to a normal sentence without it having some sort of TikTok reference.
— flo (@flotweeets) November 26, 2024
Nel 2024, "brain rot" è diventato sinonimo degli effetti dei contenuti digitali di bassa qualità, banali o sovrabbondanti che prendono anche il nome di “slop” quando sono prodotti con l’AI. La sua diffusione è strettamente legata all’esplosione di piattaforme come TikTok, YouTube e Instagram, che fungono sia da terreno fertile che da amplificatori dei contenuti stessi che il termine critica. Per molti, il termine cattura l’affaticamento mentale e il sovraccarico cognitivo causati del doomscrolling, dove l’intrattenimento fugace spesso sostituisce un impegno intellettuale più profondo, accorciando la soglia dell’attenzione e creando una serie di riferimenti interni che rimandano sì a un significato ma che verbalmente appaiono sempre più illogici e quasi anti-verbali con parole che regrediscono allo stato di onomatopea, termini complessi che diventano monosillabici e strutture lessicali che si sgretolano e atomizzano sempre di più: da “carisma” a “rizz”, ad esempio; dall’inglese “simpleton” a “simp”; o concetti come “mogging” e “looksmaxxing”.Data la metareferenzialità che definisce il fenomeno “brain rot” è spesso usato in modo umoristico, con un certo grado di consapevolezza autoironica nei meme stessi. Le comunità online utilizzano frequentemente il termine per criticare le proprie abitudini di consumo, scherzando sulla natura coinvolgente e alienante dei contenuti che creano e osservano ogni giorno. Questa auto-riconoscimento ironico ha svolto un ruolo chiave nella popolarizzazione del termine e nel suo radicamento nel linguaggio quotidiano.
Sebbene gran parte del discorso su "brain rot" sia intriso di umorismo, il termine incarna anche preoccupazioni serie sugli impatti mentali di un eccessivo consumo digitale. Psicologi e professionisti della salute mentale sottolineano sempre più i rischi dell’esposizione prolungata a contenuti banali o tossici online, in particolare tra bambini e adolescenti. Questi rischi includono una ridotta capacità di attenzione, un aumento dell’ansia e un indebolimento delle capacità di pensiero critico—tutti fenomeni che si allineano con l’interpretazione moderna di “brain rot.” Nel 2024, queste preoccupazioni hanno acquisito maggiore rilevanza, con organizzazioni ed esperti che hanno iniziato ad affrontare il fenomeno direttamente. Tutti motivi per cui molti paesi hanno iniziato a pensare a un ban dei social media per i minorenni come quello di recente attuato in Australia. Per Casper Grathwohl, presidente di Oxford Languages, «questo termine incapsula i pericoli percepiti dell’indulgenza digitale e riflette il nostro confronto collettivo con i modi in cui utilizziamo il nostro tempo libero», ha spiegato. Grathwohl ha anche notato l’ironia del fatto che le generazioni più giovani, che sono sia i creatori sia i principali consumatori di contenuti digitali, siano anche le stesse che parlano più apertamente delle implicazioni del termine.