In "The Beast" ciò che è assente è ciò che è più reale
Léa Seydoux è la protagonista del film di Bertrand Bonello, una donna che si sposta avanti e indietro nel tempo
22 Novembre 2024
Quando le chiedono se riesce a spaventarsi a comando, Gabrielle (Léa Seydoux) risponde di sì. È chiaro, è un’attrice, ma nell’epoca dei green screen, della CGI, del rendere presente sullo schermo ciò che non è presente nella realtà, può essere alquanto complicato. È per questo che, a maggior ragione e ancor più che nel passato, attingere dalle proprie emozioni significa rendere vero, a volte tangibile, sicuramente reale ciò che viene chiesto di esprimere di fronte - ma non solo - una telecamera. Il bagaglio di esperienza della protagonista, al centro di The Beast di Bertrand Bonello, è essenziale per il suo mestiere, contrapposto completamente a quello che, nel 2044, è il lavoro post-catastrofe mondiale. Un impiego che non può e non deve comprendere alcuna emozione. Gabrielle, però, è sempre la stessa, è un personaggio che vediamo muoversi nel tempo, fare avanti e indietro nelle vite precedenti che ha vissuto e che, per adattarsi al meglio alla sua nuova epoca, le viene chiesto di rivivere per purificarsi e liberarsene attraverso un processo tecnologico di catarsi.
Così vediamo Seydoux interpretare una pianista sensibile e rinomata dei primi del Novecento, un’attrice che non riesce a fare carriera e deve ripiegare sul lavoro da modella cento anni dopo e, infine, una donna qualunque che cerca uno scopo, di sentirsi utile nel suo presente del 2044, mentre si sente costantemente alle prese con l’arrivo di qualcosa che segnerà la sua fine. Era così all’inizio del XX secolo, lo è in quello successo e continua a provare la medesima inquietudine anche nel 2044. Il comune denominatore: un uomo che Gabrielle continua a incontrare ancora, ancora e una volta ancora. Forse il grande amore della sua vita, che spesso vuol dire imbattersi nel dolore e nella violenza più grandi che si possano subire.
Bonello, traendo ispirazione dal romanzo La bestia nella giungla di Henry James, teorizza da subito il senso di vuoto e confusione che la protagonista prova, abbinandolo al concetto di assenza che nella modernità ha invaso il cinema, cercando di raccontarlo aggrappandosi alla cosa più umana che esista: l’amore. Di concreto, la bestia, non ha niente. Non la vediamo mai, per noi spettatori è solo un’ombra e, ogni volta, l’urlo di Gabrielle che ne denota la presenza è solo un indizio che ci fa presupporre che la creatura è - o almeno dovrebbe essere - lì, davanti a noi. Aprire e proseguire sulle tecniche contemporanee a cui si affida l’audiovisivo odierno, che vengono utilizzate dal cinema finanche alla pubblicità, è un po’ ciò che avevamo visto fare alle “macchine sacre” del compare francese dell’autore, il Leos Carax di Holy Motors nel 2012. Un espediente per raccontare con The Beast lo sgretolamento delle emozioni, del loro essere ormai inafferrabili e non necessariamente riproducibili, eppure mostrando al contrario anche il desiderio della protagonista di attaccarcisi nonostante una società post-apocalittica che le chiederà di abbandonarle.
L’amore, che trascende il tempo, è irrequietezza e maledizione per chi sente troppo, prova troppo, e comunque non vuole rinunciarvi. Come, in fondo, il cinema non vorrà rinunciare mai al vero senso di perturbante che un attore o un personaggio saprà dare, attingendo dalle proprie esperienze, da ciò che ha attraversato, trasformandolo in carburante per rendere ciò che non esiste (l’idea di un film) in qualcosa di presente, autentico, esistente (il film in sé). The Beast non risparmia suggestioni, sconcertamenti, l’immaginazione è una tradizione che si ripete uguale di anni in anni, di secoli in secoli, per tornare sempre all’essenza delle cose, al loro stato primordiale. Avere paura, amare, sentirsi continuamente sul bordo di una voragine è ciò che Gabrielle sente, continua a sentire e non vuole smettere di provare, anche quando l’esperienza le farà apprendere che farà male, incredibilmente male. È il contrappasso del cinema: sapere che davanti al grande schermo potresti sentire e vedere (o no) qualsiasi cosa, anche la peggiore al mondo, e decidere comunque di non sottrarti.