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Pierre Bordieu, il calcio, sentirsi parte di qualcosa

Intervista al duo di PROTOTYPES

Laura Beham e Callum Pidgeon mi accolgono con abbraccio caloroso e uno spritz in mano, nessuno direbbe che quella stessa mattina abbiano accusato il viaggio da CDG per giungere nello spazio industriale in cui sto per intervistarli. Il duo, coppia nel lavoro e di vita, che si è fatto strada nella scena mainstream abbattendo i dettami della moda canonica con un approccio d’avaguardia all’upcycling e alla comunicazione. Tra estetica calcistica e idee concrete per cercare di cambiare le dinamiche del retail, allo show Series07 tenutosi lo scorso luglio, i designer hanno radunato una prima fila fittissima: Mowalola, Guram Gvasalia, una schiera di rapper e influencer di Los Angeles. È il tipo di supporto che qualsiasi brand emergente vorrebbe avere, nonché una community che per Laura e Callum sembra del tutto spontanea. Li abbiamo incontrati per indagare più a fondo il segreto della loro amabilità, prima della seconda puntata di Beyond Fashion in cui sono stati ospiti insieme a Fredric Saint-Parck. Siamo finiti a parlare di Pierre Bordieu, d'infanzia e di collezionismo, ma abbiamo anche parlato di futuro, in particolare di come riuscire a cambiarlo.

«Abbiamo iniziato a interrogarci. In cosa crediamo? Cosa vogliamo essere? Dove vogliamo arrivare? E nel mentre tagliavamo, appuntavamo, cucivamo e aggiungevamo volume, scomponendo e riassemblando materiali che già esistevano. È emerso un senso di responsabilità. Durante il periodo del Covid, mentre eravamo in lockdown in Svizzera, ci siamo detti: bisogna ripensare la produzione di un capo, bisogna farlo da zero.»

La prima domanda riguarda il vostro background, so che condividevate la scrivania da Vetements, come sono stati gli inizi e come si sono fuse le vostre visioni?

C.P. All'epoca eravamo entrambi piuttosto giovani. È iniziato tutto in modo molto pragmatico, con diverse task pratiche che portavano con sé delle responsabilità. Demna è il designer più rilevante dei nostri tempi, sono molto grato di aver avuto la possibilità di lavorare con lui: ha lasciato un segno unico sulla nostra sensibilità. Era necessario per noi avere una visione d’insieme dell'industria prima di creare il nostro brand.

E qual è stato il punto di svolta che vi ha portato a passare dal lavorare per un brand a decidere di fondarne uno vostro?

C.P. Abbiamo iniziato a interrogarci. In cosa crediamo? Cosa vogliamo essere? Dove vogliamo arrivare? E nel mentre tagliavamo, appuntavamo, cucivamo e aggiungevamo volume, scomponendo e riassemblando materiali che già esistevano. È emerso un senso di responsabilità. Durante il periodo del Covid, mentre eravamo in lockdown in Svizzera, ci siamo detti: bisogna ripensare la produzione di un capo, bisogna farlo da zero.

La scelta di condividere i prototipi effettivi dei vostri capi, di dare al consumatore le istruzioni per creare il capo in autonomia, mette radicalmente in discussione il concetto di proprietà, in un certo senso. Mettere un po’ di Marx in un sistema che ne rappresenta la negazione, lo trovo nel suo piccolo un gesto rivoluzionario.

L.B: C’è un po’ di Marx sì. Crediamo nella massa, ma anche nell'unicità, quindi preferirei piuttosto riferirmi a Pierre Bourdieu. Faccio un esempio pratico: arrivi a una fermata dell'autobus e ci sono già due persone sulla banchina e devi sederti accanto a una di loro. Inconsciamente, sceglierai di sederti vicino ad una piuttosto che all'altra, senza una ragione precisa o almeno senza una ragione che tu sappia spiegarmi razionalmente. È ciò su cui si basa tutta l'industria della moda: è questione di ego e di non ego, il desiderio di sentisi parte di qualcosa e allo stesso tempo di emergerne. Trovo molto rappresentativo dei nostri tempi il concetto di ready-made di Duchamp. Nella frenesia dei social media non c'è più tempo di digerire niente. Un’immagina ti conivolge solo nei primi secondi in cui la visualizzi, altriementi ti lascia indifferente. Quando realizziamo una felpa riciclata da un paio di pantaloni della tuta ad esempio, vogliamo che si veda ancora l'indumento originale. Si tratta di prendere qualcosa di ordinario, prodotto in massa, dalla vita comune, di decodificarlo e ricodificarlo. Ma l’emozione che rimane è quella familiarità istintiva che solo un oggetto di uso comune può darti.

«Puoi entrare in qualsiasi negozio e trovare una t-shirt nuova, non di seconda mano, per 5 o 10 euro. È colpa nostra se le persone credono che le magliette crescano sugli alberi. Ed è per questo che l’industria della moda è una delle più inquinanti al mondo, a causa della produzione di massa. Il concetto DIY invece trasforma il consumatore in produttore, non c’è niente di più sostenibile. Spero che le persone ripensino il valore di una t-shirt da 5 euro e capiscano che realizzare un capo non è affatto facile.»

Ed è questa stessa familiartà a connettervi all’immaginario della working class? Nelle campagne, nei capi, la classe operaia è spesso protagonista e con lei i suoi rituali, come il calcio. Da dove nasce questo legame?

C.P. Sono cresciuto nelle Midlands nel Regno Unito. I miei genitori mi hanno avuto da adolescenti, credo di essere stato un fortunato incidente. Papà era elettricista, mentre mamma lavorava in un centro di giardinaggio, ricordo ancora la sua tuta verde da lavoro. Stanno ancora insieme, felicemente sposati. È una storia a lieto fine ma è stata dura. Non avevamo molto. Ho giocato a calcio per tutta la vita, gli allenamenti, le partite, hanno scandito la mia crescita. È come una religione, non solo giocare a calcio, ma anche tifarlo: è lo sport più inclusivo al mondo. Non posso fare a meno di inserirlo nelle nostre ricerce ogni stagione.

L.B. Sei un vero nerd del calcio: conosci ogni trick dagli anni ‘60 agli anni ‘80, sai tutto. Penso che oggi molti club siano gestiti come brand veri e proprio, con lanci esclusivi di merchandising. Ogni stagione una squadra rilascia la propria maglia in poliestere che durerà appunto una stagione e che non sparirà mai dal pianeta. Lo sportswear è economico e di massa, e per questo è ideale per il riciclo.

Come definiresti il calcio? Una religione? Un’ossessione?

C.P. È un culto.

Sto scrivendo una rubrica in cui chiedo a tutti i designer le loro ossessioni, partendo dal concetto le menti creative sono destinate a ripetere un’immagine, un pensiero, qualsiasi cosa. Quindi, quali sono le vostre ossessioni?

L.B, Ieri hai fatto un pisolino di tre ore davanti alla partita, ma mi hai comunque categoricamente vietato di cambiare canale. La tua ossessione è il calcio, ammettilo.

C.P. È vero (ride).

Qual è la tua di ossessione invece Laura?

L.B Direi il vintage. Sono una grande collezionista, quasi un’accumultarice ad essere del tutto onesti. Collezionerei tutto, dai cucchiaini da caffé a oggetti trovati per strada. Tranne calzini e biancheria, non compro mai nulla di nuovo. Nulla che non ami soprattutto.

Cosa dovremmo fare per cambiare in modo più ampio le nostre dinamiche di consumo?

L.B. Penso sia questione di consapevolezza. È una sorta di educazione per il consumatore e il retail ha una grande responsabilità in questo processo. Puoi entrare in qualsiasi negozio e probabilmente trovare una t-shirt nuova, non di seconda mano, per 5 o 10 sterline. Questo dà al pubblico l'idea che i vestiti siano usa e getta. È colpa nostra se le persone credono che le magliette crescano sugli alberi. Ed è per questo che l’industria della moda è una delle più inquinanti al mondo, a causa della produzione di massa. Il concetto DIY invece trasforma il consumatore in produttore. Non credo ci sia niente di più sostenibile di questo. Spero che le persone ripensino il valore di una t-shirt da 5 o 50 euro almeno, e capiscano che realizzare un capo non è affatto facile.

Photographer Michele Perna
Interview Maria Stanchieri
Special thanks to Lampo Milano,Galleria Lampo