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Il vero horror di "The Substance" sono le nostre insicurezze

Che tu sia Demi Moore o Margaret Qualley, dovresti imparare ad amare di più te stesso

Il vero horror di The Substance sono le nostre insicurezze Che tu sia Demi Moore o Margaret Qualley, dovresti imparare ad amare di più te stesso

The Substance è un film sulla compassione e sfidiamo chiunque a dire il contrario. Splatter, disgustoso, estremo, gore. Coralie Fargeat ha scritto e diretto un’opera smodata, una pellicola in cui tutti, se almeno una volta nella vita si sono guardati allo specchio e non si sono piaciuti, possono riconoscersi. La superficie riflettente è il terzo personaggio del film presentato allo scorso festival di Cannes, in Italia in anteprima con la 19esima Festa del Cinema di Roma. Che sia falsa o veritiera, nemica o amica, l’immagine che restituisce può squarciarci l’anima come rinvigorire il nostro ego. L’unica cosa da dover fare è riuscire a piacersi come si è. L’unica. E non è tanto facile. Per Elizabeth Sparkle, una sempre splendida Demi Moore, non lo è affatto. Premio Oscar che ha virato la propria carriera sulle trasmissioni di fitness, volto e corpo di uno dei maggiori programmi di allenamento con cui ha riempito di poster e successi il corridoio degli studi televisivi (il cui design richiama Shining di Stanley Kubruck), per la donna è arrivato il momento di lasciare spazio a carne più giovane, preferibilmente che abbia tra i diciotto e i trent’anni. Accettato non di buon grado di dover chiudere con body sgambati e addominali scolpiti, Lizzy ricorrerà ad una sostanza sperimentale che le darà una nuova pelle. Letteralmente. Uscendo come uno xenomorfo dalla sua schiena, Elizabeth/Demi diventerà Sue/Margaret Qualley, “la versione migliore di te stesso”. Cambiato volto e cambiato fisico, la protagonista riprenderà il suo vecchio posto, ma in un altro corpo, con l’invito a ricordare solo un semplice punto: che sia Lizzy o sia Sue, le quali devono sostituirsi ogni sette giorni, è sempre la stessa donna. Una soltanto.

È incredibile come The Substance, con un’intuizione talmente malata e geniale, sia riuscito non solo a metterci a nudo di fronte alle insicurezze che costantemente proviamo e subiamo, ma ci dica esplicitamente che tendiamo ad essere noi i primi odiatori di noi stessi. Tanto quando si tratta di curare il nostro aspetto, quanto nel preservare la nostra interiorità. Non è una lagnosa dimostranza sul vecchio detto “l’importante è essere belli dentro” (e, forse, se ognuno di noi avesse dentro una Margaret Qualley, saremmo più che contenti di farla uscire fuori) ma che saper amare ogni versione di noi, ogni età che portiamo, può aiutarci a non marcire dall’interno. E perciò lo specchio, avverso e lusinghiero, torna nella scena-chiave di tutto The Substance. Per quanto da un così esplicito body horror ci si aspetti che l’anima dell’opera sia il sangue che sgorga a fiotti (è presente), i corpi dilaniati che rigettano organi e pus (sono presenti) e una sorte delirante e disgustosa per i suoi protagonisti (presente anche quella), per dare intero senso alla pellicola basta Demi Moore, il suo riflesso e il complesso che infondono nelle donne over trenta, a maggior ragione se hanno speso il loro tempo e la loro fatica sotto i riflettori dello spettacolo. La sequenza non potrebbe essere più basilare: cercando di ritrovare un po’ di autostima - nella pelle di Lizzy, ovviamente, non certo di Sue - la protagonista accetta un appuntamento con un vecchio compagno di liceo, che dopo averla incontrata per caso non manca di confermarle che “sei ancora la ragazza più bella del mondo”.

Tubino rosso aderente, scollatura vertiginosa e lunghi guanti neri (accessorio per cui c’è un macabro motivo, ma non vogliamo rivelare troppo), Lizzy è radiosa prima di uscire di casa, ma l’imponente cartellone pubblicitario con l’immagine tutta salute di Sue incombe sulla fiducia in se stessa come una macigno. La guarda, si guarda, si strucca. Si risistema, ricomincia il make-up da capo, ripassa la cipria, aggiunge ancora un po’ di rossetto. Sta per uscire, lo sguardo di Sue-cartellone è più pesante, vicino, giudicante. Lizzy torna davanti allo specchio, è la terza volta, si strucca e stavolta con rabbia si toglie il trucco, quasi volesse sfregiarsi con la tinta labbra rosso acceso. Si graffia, probabilmente, piange di rabbia e ringhia alla sua immagine, incapace di accettarne gli inestetismi, minimi, fisiologici, che la sostanza ha eliminato, eliminando direttamente lei stessa. E pensare che ad aspettarla alla cena, a cui non andrà mai, c’è l’uomo per cui è “la più bella del mondo”. 

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In quel momento, The Substance si apre come un’epifania davanti agli spettatori. Dice a chi è disposto a guardare, ma soprattutto a chi vuole comprende in profondità, che tolto lo strato epidermico del sangue, schifo, sporcizia, ali di pollo, braccia staccate, mostri in agguato (il personaggio di Dennis Quaid su tutti), la bestialità del film è completamente universale. È un dolore lancinante quanto una spina dorsale spezzata. È un compatimento per la protagonista in cui riconosciamo quella volta che ci siamo osservati minuziosamente allo specchio e abbiamo trovato almeno cinque, sei, anche quindici difetti che avremmo cambiato del nostro viso e del nostro corpo. E quando la pellicola esplode, vira sul grottesco eruttando come un vulcano, il compatimento diventa misericordia, contributo attivo dello spettatore nei conforti di Lizzy-Sue-chiunque lei sia. Lei voleva solo essere una stella, non venir cancellata. Pearl insegna. Ma stella per chi? Il cognome “Sparkle” della protagonista è un segno. The Substance va dallo star system che non risparmia nemmeno i vincitori degli Academy - o dei Golden Globe, se pensiamo che provano a diventare tali proprio con film d’autore come Mickey Rourke con The Wrestler dopo qualche ritocco di troppo - a qualsiasi donna o uomo che ha pensato che una punturina non ha mai fatto a nessuno, a meno che non sia la centesima. È un film umano. Il film disumano più umano di tutti.