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C’è un po’ di film in questo product placement

Pratiche moderne della pubblicità nell’audiovisivo, da Pedro Almodóvar a Emily in Paris

C’è un po’ di film in questo product placement Pratiche moderne della pubblicità nell’audiovisivo, da Pedro Almodóvar a Emily in Paris

C’è una scena in The Room Next Door di Pedro Almodóvar, Leone d’oro all’81 Mostra del Cinema di Venezia, in cui la camera riprende a tutto schermo una piccola scatola piena di ghirigori firmata Dolce&Gabbana. L’oggetto è funzionale, una delle protagoniste - le splendide Julianne Moore e Tilda Swinton - sta cercando un elemento fondamentale ai fini della storia. Ma è pur vero che, nonostante si abbini alla perfezione coi i toni rossi, verdi, gialli e blu della pellicola del maestro spagnolo, quella che volgarmente molti chiamerebbero marchetta è talmente evidente che sarebbe quantomeno disonesto non parlare esplicitamente di product placement. La pubblicità nel cinema e nelle serie tv non è uno degli ultimi baluardi delle trovate capitaliste, appartenendo alle consuetudini della settima arte fin dai suoi primi esperimenti: è del 1898 il primo spot/film girato direttamente dai fratelli Lumière, Sunlight, incentrato sull’omonimo sapone che dava titolo all’opera e che fece dei pionieri del cinematografo anche i primi a costituire cosa fosse la pubblicità video. 

Ovviamente, negli anni quel grado di esplicità è stato rivisto e smussato, reso nascosto e sibillino, destinato ad agire negli angoli della corteccia cerebrale degli spettatori e a inviare segnali senza nemmeno che se ne accorgessero. Non è certo il caso delle Aston Martin o dei martini di James Bond, strumenti del mestiere che saltano immediatamente alla mente se si pensa al personaggio nato dalla penna di Ian Fleming, ma è altrettanto esatto constatare come più la pubblicità coi suoi prodotti fosse integrata con cura all’interno di una narrazione, meno il pubblico si sarebbe sentito ingannato di fronte alla divulgazione di materiale promozionale. È infatti nel diritto di ogni consumatore - e spettatore - essere informato su quanto e come, più o meno chiaramente, un film o una serie tv stia cercando di vendergli qualcosa. E sebbene le leggi al riguardo siano spesso in cambiamento, e negli Stati Uniti non ci sia un autentico regolamento (ci si rifà principalmente alla Federal Communications Commission e alla Federal Trade Commission), si riserva sempre uno spazio nei titoli di coda in cui si viene informati su quali siano state le realtà che hanno provato a venderci, che siano esperienze come viaggi con compagnie aeree quanto articoli tangibili come il suddetto scrigno di Dolce&Gabbana. Il confine, però, tra integrazione e sovrapposizione è ciò di fronte a cui show come Emily in Paris dovrebbero metterci sempre più in allerta.

@jamesbond007 5.2 litre twin-turbo V12 engine 715 horsepower Top speed of 211 mphDBS Superleggera – the next evolution of a Bond car from Aston Martin – is available in the Christie's auction to celebrate #60YearsofBond.Fea original sound - James Bond

È vero che tutto può essere spendibile, e un’ottima rom-com come Fly Me to the Moon ce lo dimostra, ma il fatto che uno sponsor possa essere a servizio di un film o di un prodotto invece che il contrario dovrebbe rimanere una verità invalicabile da dover rispettare. Nel film di Greg Berlanti con Scarlett Johansson e Channing Tatum, la protagonista Kelly Jones riesce a vendere l’idea della NASA rendendo commerciale un pianeta come la Luna. Ma se ogni tre per due dalla bocca di Emily o dei personaggi dello show Netflix esce un nuovo prodotto imperdibile che viene poi reiterato per il resto della puntata, allora forse non si è compreso che è l’audiovisivo che dovrebbe dettare le proprie regole alla pubblicità, e non il contrario. Da tenere a mente è la quantità di soldi in cui una produzione può imbattersi se stringe l’accordo giusto: per GoldenEye, BMW spese $3 milioni per far guidare una sua auto all’agente 007, ma il ritorno può essere altrettanto proficuo anche per chi ha acquistato uno spazio in un racconto - come l’aumento del 70% delle vendite della Hershey nel mese successivo all’uscita di E.T. - L’extraterreste (pensare che la Mars non volle cedere il marchio delle sue M&M’s). Ma una pubblicità efficace non funzionerà mai se non le si applica il giusto taglia e cuci all’interno della storia, seguendo le tre formule del production placement: lo screen placement quando il prodotto è solo sullo schermo, il plot placement quando è inserito nella trama o lo script placement quando viene menzionato da un personaggio. La raffinatezza è tutto, ma al contempo l’aspetto più scivoloso che determina anche la qualità dei titoli. E probabilmente un Emily in Paris in cui si gira un mini spot per la Renault 5 in maniera talmente grossolana è più vicina ad un Don Matteo con un funzionario dell’Enel come membro della serie - con i personaggi a cui viene spiegato come pagare le bollette online - che a un Christopher Nolan che rende parte integrante della trama l’orologio Hamilton Khaki Pilot Day Date in Interstellar

Attenzione a non ritenere che soltanto la serialità abbia dei modi più rustici. Non è infatti con altrettanta delicatezza che Ryan Reynolds ha inserito in buona parte dei suo ultimi film la propria marca di liquori Aviation Gin, agendo in maniera più apprezzabilmente subdola in Free Guy facendola comparire come pop-up, mentre una bottiglia viene impunemente spiattellata su un tavolo in bella vista nell’action movie Red Notice. Tra l’altro ha poi venduto il marchio per $610 milioni alla multinazionale Diageo: un investimento che gli ha di certo fruttato. Ma il marketing è pur sempre marketing e poche volte funziona grazie all’imprevisto, come nel caso di Ritorno al Futuro, in cui Michael J. Fox indossò le famose Nike modello Bruins perché, avendo sostituito il precedente attore Eric Stoltz, il reparto costumi non aveva altre scarpe della sua taglia, lasciandolo girare con le sue (su raccomandazione del regista Robert Zemeckis, ovviamente). La prassi, sebbene in scala esorbitante, è solitamente quella seguita da Man of Steel, che nel 2013 vide entrare nelle casse della produzione $160 milioni dovuti a contratti pubblicitari stipulati con cento aziende differenti, le quali andranno poi a confluire all’interno del cinecomic. 

Comprare è l’imperativo. E a quanto pare già i Lumière lo sapevano già. L’avvertenza che però a questo punto dobbiamo farci da soli è di non accettare tutto ciò che viene offerto senza allertare almeno il nostro senso critico (e da consumatori). Se poi scegliamo di comprare la maglietta di Primark o la collezione limitata di trucchi di Bridgerton, sta totalmente a noi e siamo liberi di farlo. Vero anche che la Mattel nel 2023 ha completamente sbaragliato le carte catapultandoci all’interno della sua azienda - letteralmente, stando alla storia - con Barbie di Greta Gerwing, elevando la propria proprietà e non inserendola nel film, ma rendendola il film stesso. In fondo, chi non vorrebbe vivere in un mondo come Barbieland, dove tutto ciò che ti vendono è completamente gratis?