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Le piattaforme streaming sono sempre più simili alla TV tradizionale

È arrivato il momento di riaprire i negozi di DVD

Le piattaforme streaming sono sempre più simili alla TV tradizionale È arrivato il momento di riaprire i negozi di DVD

Nell’industria pubblicitaria statunitense, da decenni, per presentare agli inserzionisti i nuovi palinsesti dei canali televisivi si organizzano grandi eventi ad hoc. Solitamente hanno cadenza annuale, si tengono in primavera e prendono il nome di “upfront”. Qui le emittenti televisive cercano di vendere in anticipo le inserzioni pubblicitarie nei loro programmi futuri, permettendo di comprare grandi volumi di spot a tariffe più vantaggiose rispetto agli acquisti last minute. Inoltre, in questo modo, si offre la possibilità di godere di spazi pubblicitari nei programmi più attesi. Gli upfront hanno origine nell'industria televisiva generalista, ma con l’ampliamento del panorama mediatico si sono evoluti. Quest’anno, per la prima volta, le due più grandi piattaforme di streaming, Netflix e Prime Video, hanno partecipato all'evento, un punto di svolta che sottolinea quanto l’economia delle piattaforme di streaming stia tornando a basarsi sui modelli di business tradizionali, tipici della TV lineare – fondati cioè sulla pubblicità, «ovvero il più tradizionale e meno alternativo “carburante” dell’industria dei media». Così la definisce Lelio Simi, giornalista che si occupa di industrie dei media e autore della newsletter #Mediastorm

A parte Apple TV+, tutte le principali piattaforme di streaming hanno ormai previsto – adeguando i rispettivi abbonamenti – una forma di pubblicità. «Un modo semplice ed efficace per fare soldi», precisa Andrea Girolami, giornalista, content manager e autore della newsletter Scrolling Infinito. Sebbene gli spot presenti sulle piattaforme siano molti meno di quelli della televisione generalista, anche in quel caso il modello di business basato sulle inserzioni si è dimostrato – sul lungo periodo – uno di quelli economicamente più sostenibili, tanto da diventare indispensabile persino in un settore dove sembrava essere superato. «Per quanto la pubblicità possa essere definita come "quella cosa che le persone sono disposte a pagare per non vederla", il modello di business che si basa solo sugli abbonamenti o ricavi totalmente privi di annunci pubblicitari sembra, prima o poi, mostrare dei limiti – anche per chi, come Netflix, ha costruito attorno a sé vaste comunità», scriveva Simi nel 2022 sulla sua newsletter. Resta il fatto che «il modello pubblicitario è un modello efficiente, ma non necessariamente quello più efficiente» sottolinea Girolami, che aggiunge: «Le piattaforme di streaming, così come qualunque altro business online, si sono dovute aprire a una diversificazione delle linee di guadagno, prendendo soldi ovunque si possano trovare – abbonamenti, pubblicità, ma anche vendita di merchandising, licenze o videogiochi».

@laleggiadro Piantino messo in pausa#netflix #pubblicità #fypシ suono originale - alessia leggiadro

Una volta che il proprio servizio si è imposto sul mercato, i modelli di business delle aziende – anche di quelle grandi e innovative – in molti casi tendono a diventare più standard e tradizionali. È esattamente quello che è successo alle piattaforme di streaming: negli anni si sono rese conto che fare affidamento praticamente solo al numero di abbonati – per quanto elevato – non bastava per garantire la sostenibilità economica. «Ora che le piattaforme sono grandi tanto quanto la televisione lineare, e anche di più, il pubblico a cui si rivolgono e le strategie di monetizzazione sono le stesse, così come la necessità di fare tanto con poco», sostiene Girolami. «Le piattaforme di streaming copiano la TV lineare perché questa è un’industria con un’efficienza nei costi di produzione», precisa. In questo contesto l’introduzione della pubblicità è stata vista come la soluzione più immediata e remunerativa, in un momento in cui il numero massimo di persone disposte a pagare per lo streaming sembra essere raggiunto. «Non ci sono così tanti abbonamenti mensili da 10 dollari che la gente è disposta a sottoscrivere», aveva sintetizzato in merito The Economist. Oggi le singole società, piuttosto che mirare a conquistare nuovi utenti, provano a sottrarli alle altre piattaforme, a trattenerli e a fidelizzarli. Una delle modalità in cui lo fanno è smetterla di pubblicare tutti insieme gli episodi di una serie, ma dilazionarli nel tempo, così da tenere vivo l’interesse di chi la segue. Questo approccio, ancora una volta, infrange un celebre standard che, quando erano entrate nel mercato, le piattaforme di streaming avevano rivendicato – in rottura con le abitudini precedenti. Ad esempio, la serie di punta di Amazon Prime The Rings of Power, inizialmente una delle più attese dagli spettatori, sia per la prima che per la seconda stagione ha seguito un modello di rilascio settimanale.

Il percorso di The Rings of Power dimostra poi un’altra tendenza: per anni le piattaforme hanno puntato su film e serie di grande prestigio, investendo ampi budget nella speranza di vincere premi che avrebbero rafforzato la loro reputazione di fronte all’industria cinematografica. «Questa metrica è stata presa come principale – se non unica – dai grandi investitori finanziari per valutare il valore di queste media company, drogando di fatto il mercato e spingendo a spendere cifre enormi in nuovi contenuti, appunto, al di là di ogni logica costi-ricavi», spiega Simi. «Come insegna la teoria della famigerata “disruption” tecnologica, i nuovi arrivati provano sempre a fare quello che i leader di mercato snobbano perché poco remunerativo. Così Netflix quando si è presentata lo ha fatto con serie di prestigio che nessuna TV era interessata a produrre perché antieconomiche. Queste sono servite a introdursi nel mercato e trovare uno spazio non presidiato», aggiunge Girolami. Quando Netflix decise, nel 2013, di lanciarsi nella produzione di film e serie, era un mondo al quale era completamente estranea: come segnala Simi, essere “del mestiere” all’interno dell’ambito era fondamentale, e la concorrenza con la quale doveva confrontarsi – gli studios Hollywood – erano lì da oltre novant’anni. Oggi, con l’autorità che Netflix e altre piattaforme hanno guadagnato nel tempo, film e serie ambiziosi hanno sempre meno senso di esistere anche per loro.

In riferimento al rinnovato modello di business, basato maggiormente sulla pubblicità, è diventato più importante preservare e aggiornare i programmi, i film e le serie più popolari – e non scommettere tutto su prodotti sofisticati che potrebbero essere apprezzati solo da una nicchia di utenti. È per questo che nel catalogo di Netflix o Prime Video, tra gli altri, sono sempre più presenti repliche di vecchi film o serie di successo. Come dichiara Simi, «l’attenzione agli equilibri dei costi-ricavi ha portato molte grandi major, tra cui Paramount o Warner Bros. Discovery, a rivedere completamente anche la politica sui contenuti originali in esclusiva: cedere per qualche anno i diritti dei film e delle serie porta denaro, molto di più che inseguire nuovi abbonati – anche perché diventa più difficile, proprio per la grande frammentazione del mercato. Ecco allora che il cerchio si chiude, e la "nuova" televisione con le interruzioni pubblicitarie e piena di vecchi contenuti assomiglia sempre di più alla TV che abbiamo conosciuto in passato»