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I trailer sono sempre più brutti

Troppo lunghi, troppo falsi o con rinoceronti improbabili

I trailer sono sempre più brutti  Troppo lunghi, troppo falsi o con rinoceronti improbabili

Come per un lungometraggio, i trailer dovrebbero essere lavorati ad opera d’arte. Tagliati e cuciti come si farebbe col più bel vestito. In fondo sono proprio una confezione: un pacchetto regalo così bello da farci pregustare il dono al suo interno. Sebbene sia troppo facile dare la colpa a chi i trailer li fa - pur avendo individuato un possibile nemico, ma ci arriveremo con calma - è pur vero che i tempi sono cambiati, così come la nostra soglia dell’attenzione. I prodotti sono aumentati e tra film e serie tv si finisce per passare il venerdì sera a casa, spaparanzati sul divano, senza aver cominciato né gli uni né le altre per la soffocante, abnorme, variegata offerta. L'industria cinematografica sembra stare assistendo a una vera e propria epidemia di trailer brutti, a volte persino falsi: mentre il nuovo trailer de Il Gladiatore 2 stupisce tutti per la sua durata record, lo scorso agosto Lionsgate ha dovuto ritirare i video promozionali di Megalopolis in quanto alcune delle recensioni negative riportate in sovrimpressione (sempre perché ormai attirare l'attenzione sembra davvero l'unica prerogativa che si pongono i media) si sono rivelate inventate, create con l'intelligenza artificiale da un consulente marketing - adesso senza lavoro. Ma come siamo arrivati a questo punto? A insegnarci bene cos’è un trailer è un classico della commedia romantica: L’amore non va in vacanza(2006), scritto e diretto da Nancy Meyers. Lo vediamo col lavoro della protagonista interpretata da Cameron Diaz, una montatrice professionista di trailer hollywoodiani che pensa alla sua vita come a una continua presentazione composta da immagini salienti. Ed è questo che dovrebbe fare un trailer: mostrare il meglio delle potenzialità del prodotto che sta vendendo. Perché il film può anche appartenere all’universo autoriale, ma i trailer, pur nella loro fattura artigianale, sono pur sempre pubblicità.

Lo avevano capito fin dal principio i nostri antenati del Nickelodeon, con i trailer a fine film invece che in testa in quanto vero e proprio “rimorchio” - stando alla traduzione dall’inglese del termine: alcune sequenze, mascherine con sopra delle scritte, un cliffhanger prima ancora che esistessero le serie tv. Bastava un “Ce la farà il nostro eroe?” con l’immancabile punto di domanda per invogliare lo spettatore ad andare al cinema. L’evoluzione dei trailer è effettivamente affascinante, abbinata a doppio giro con la stessa storia della settima arte. Da quando il cinema muto è diventato sonoro si è passati da frame a tagline, da tagline a frasi urlate ad effetto (“Il Mostro parla!”, non serviva aggiungere altro per La moglie di Frankenstein) fino a una vera e propria suddivisione aristotelica composta da inizio, sviluppo e fine per i trailer più recenti. Nel mezzo, esperimenti come l’invito di Alfred Hitchcock per Psyco, col maestro dell’orrore in prima persona che accompagna il pubblico fin dentro la casa dei Bates, e l’arrivo negli anni Novanta di MTV col suo inconfondibile pop. 

Ad oggi, nell’epoca in cui nessuno presta più attenzione a niente, si è creato un paradosso: mentre il resto nel mondo della comunicazione è diventato più breve (da video che sono diventati reel a reel che sono diventati mini), i trailer sono diventati più lunghi. Il che non riguarda la (non così) annosa questione dell’aumento della durata dei film. Nell’era in cui non c’è più tempo, dove tutto va veloce e abbiamo tanto, troppo da scegliere, un trailer che informa su qualsiasi singola cosa accadrà può essere un incentivo per lo spettatore medio a credere che non stia per sprecare due ore della sua vita. Dall’altra parte il cinefilo o, ancor più, il paladino anti-spoiler, ha sicuramente da obiettare: cosa vengo a vedermelo a fare un film se mi è già stato mostrato tutto ciò che accadrà? Dov’è la sorpresa, lo stupore? A quanto pare sono stati sostituiti da un altro piccolo trucco che non fa certo piacere a un bacino come i fan, e di cui Joker: Folie à Deux ne è una fresca prova. Si è purtroppo sparsa l’abitudine di seminare nei trailer false sequenze per ingannare e depistare lo spettatore. Nel caso del sequel dell’opera con Joaquin Phoenix, forse si tratta di un taglio al film a posteriori, ma nella versione ufficiale con Lady Gaga non c’è l’ombra del duo canterino che scende insieme ballando su delle scale a richiamare l’iconico luogo della danza di Arthur Fleck del 2019. C’è chi aspettava solo quello, non ironicamente. È stata la Marvel a mettere a punto la pratica, un gioco d'anticipo che confonde, svia, incuriosisce e fomenta il pubblico del MCU tanto che non appena uscirà dalla sala dopo un cinecomic non penserà se il film che ha appena visto gli è piaciuto o meno, ma dov'era quella scena o quel personaggio che tanto aspettava dopo aver visto il trailer. 

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Di fronte al successo delle piattaforme streaming, che analizzando il minutaggio di visione dei contenuti riescono a capire gli interessi degli spettatori, il cinema è dovuto correre ai ripari. Ecco quindi che, anche per film molto attesi, il tempo dei trailer si è allungato: Il Gladiatore 2 ha una durata di circa tre minuti. Almeno si può dire che ha saputo far parlare di sé, con l’improbabile, ma centrata scelta di No Church in the Wild come colonna sonora (ai montatori sono bastati i versi “Tears on the mausoleum floor/Blood stains the Coliseum doors” per convincersi) unito all’inaspettata presenza di un rinoceronte, per la cui performance si è ora in fermento al pari di quelle di Paul Mescal, Pedro Pascal e Joseph Quinn. Come se non bastasse, adesso i trailer hanno i loro stessi trailer. Non i teaser trailer, ovvero lanci del trailer che di lì a poco arriverà e che, per quanto non aggiungano molto altro, contribuiscono almeno a spalmare su più settimane il chiacchiericcio intorno ai titoli, ma frame ancora più brevi e ancora più veloci che culminano poi col logo del film, inseriti all'interno dello stesso trailer. C’è comunque da dire che se ciò che viene dopo è ritmato ed esaustivo, enigmatico e attraente, allora si tratta di un male minore a cui si può anche, con fatica, sottostare. E, in quel marasma di lungaggini e infinitezza, qualcosa che ti farà alzare dalla sedia prima o poi capiterà. Magari sarà inaspettato, come un Robbie Williams in versione scimmia in un entusiasmante primo sguardo al suo pazzo biopic Better Man, all’urlo convincente di «For the next two hours your ass is mine». Bisogna però stare attenti: si tratta sempre di un teaser.