La storia di Lyle ed Erik Menéndez, quando il true crime esagera
Torna la seconda stagione della produzione di Ryan Murphy, ma bisogna ancora capire chi sono i veri mostri
24 Settembre 2024
Dopo il successo di Dahmer, storia in dieci puntate sulle vicende del cannibale di Milwaukee, Netflix ha trasformato la miniserie di Ryan Murphy e Ian Brennan, collaboratori già dai tempi di Glee e Scream Queens, in un contenitore antologico in cui inserire pian piano tutti gli avvenimenti più aberranti che hanno punteggiato gli Stati Uniti. Monsters è una saga parallela ad American Crime Story, di cui Murphy è produttore esecutivo, e cugina della orrorifica American Horror Story, di cui sempre Murphy è addirittura creatore. Il progetto si prospetta incarnare una versione più mainstream di Mindhunter, la serie Netflix sull’analisi psicologica dei serial killer e la nascita dei profiler realizzata da David Fincher, che è stata dopo solo due stagioni cancellata nonostante il prestigio. Recentemente, la serie di Fincher è tornata nuovamente nel radar della piattaforma per un possibile rilancio. Da “mini”, la serie di Murphy soccombe perciò alla più canonica definizione di “serie”, dedicando la seconda stagione all’assassinio dei genitori da parte dei fratelli Lyle e Erik Menéndez, a cui viene riservata una disamina in nove episodi su cosa è successo, perché è successo, con tanto di tesi e antitesi che portano a riflettere sul ruolo dei media e della risonanza che efferati omicidi possono avere nel mondo reale. Un caso lontano dalla prima scelta di Dahmer, sia per il tipo di scrittura applicata che per una messinscena che sembra avvicinarlo molto più a L'assassinio di Gianni Versace - divertente pensare che nel ruolo di Donatella ci sia Penélope Cruz, mentre per il padre abuser Jose Menéndez si è scelto il marito Javier Barden - e che lascia molto ragionare su cosa significa prendere dalla cultura di massa, che nel tempo ha incorporato figure come Dahmer e i Menéndez nel proprio tessuto (tra citazioni in film, sitcom, canzoni), arrivando a farne dei ritratti. Il confine labile tra racconto e fascino della depravazione, che con Monsters: La storia di Lyle ed Erik Menéndez mette noi nella posizione dei curiosi, dei voraci, di coloro che vogliono sapere. Rendendoci a tratti più mostri dei mostri stessi.
Il chiacchiericcio intorno alla stagione di Dahmer aveva diverse frecce nel suo arco: omicidi multipli, parti del corpo sciolti nell’acido, un volto già famigliare - Evan Peters, vincitore del Golden Globe nel 2023 per il ruolo - e un impianto angusto facilitato dal passato e dai crimini dell’assassino, supportati da una messinscena oscura e altrettanto torbida. Per La storia di Lyle ed Erik Menéndez, invece, viene a mancare esattamente l’idea generale sulla narrazione dell’orrore, che comunque aveva contribuito alla fascinazione verso il prodotto Netflix, al punto da rendere lo “stile Dahmer” con occhialoni e camice a quadri di moda, tanto da portare eBay a bandire la vendita del costume da serial killer per il periodo di Halloween. Forse è stato proprio questo che ha spinto Brennan a scegliere il caso dei Menéndez. Non più riportare solamente l’accaduto, con il solito riferimento a come chi è considerato un “mostro”, spesso, ha delle attenuanti, ma mostrare a livello mediatico cosa significa, escogitando svolte e risvolte nella trama che mostrano il percorso altalenante della giustizia riguardo al parricidio che segnò il passaggio dagli anni Ottanta ai Novanta. La storia di Lyle ed Erik Menéndez, infatti, ha un unico assassinio su cui marciare, non multipli, concentrando la propria attenzione sull’influenza sull’opinione pubblica che esercitarono i due figli del produttore di LIVE Entertainment e come quest’ultima si sia poi rivolta contro di loro.
just tried to watch the menendez brothers thing on netflix and omg ryan murphy are you not ASHAMED of yourself…………………… pic.twitter.com/J5HBN41OvG
— jonathan (@wwwdotjondotcom) September 20, 2024
Mentre si osservano gli episodi su Netflix, ciò che di mostruoso striscia nella storia sembra crescere sempre di più dentro di noi. La ragione è una scrittura troppo lineare e poco originale, che smorza da subito l’interesse per la serie se non per un unico punto: andare a fondo in ciò che c’è di traviato nella faccenda e scoprirne tutti i più oscuri retroscena. Non sapendo offrire una narrazione capace di procedere con sicurezza sulle proprie gambe, riservando alle prime tre puntate un lungo cappello di cui, però, ci si rende conto fin da subito non essere il cuore dell’accaduto, Monsters: La storia di Lyle ed Erik Menéndez rende palese il gusto per l’orrore verso cui il pubblico è primordialmente attratto. Un riservare gli interrogativi e le annotazioni più stimolanti al finire della stagione, quando si è già compreso dal principio che si è andati avanti solamente per scoprire i segreti tristi e dolorosi della famiglia. La scelta di un’impalcatura seriale che ci fa capire come sia facile decidere di raccontare in versione romanzata una cronaca true crime, senza nemmeno il bisogno di impegnarsi troppo nello script e nella mise-en-scène, tanto è chiaro che le persone ne saranno comunque sinistramente sedotte. Un elemento che dice molto più del pubblico che del prodotto in sé, per una moda sfociata anche da questa parte del mondo, con la prossima uscita su Disney+ di Avetrana - Questa non è Hollywood sull’omicidio di Sarah Scazzi. E anche quando la serie inizia a ribaltare sempre più il punto di vista, arrivando a un processo finale che è agli antipodi rispetto al primo che vediamo, si ha come la sensazione che il racconto abbia tirato per le lunghe un avvenimento che, alla fine, poteva sfruttare di più la questione della ricezione mediatica fin dal principio, se solo avesse saputo come scriverlo bene. Un essersela presa con calma tanto da depotenziare l’analisi sulla figura del divo-assassino, argomento che avrebbe potuto spostare la sola viziosa curiosità morbosa dello spettatore. Una versione nella vita vera vissuta dai Menéndez, che è poi ciò che è avvenuto con il successo e l’acclamato risultato della serie Dahmer. Due facce della stessa medaglia, dove finzione e realtà vengono messe a confronto.
La storia di Lyle ed Erik Menéndez è così una stagione dai protagonisti mediocri, con Nicholas Chavez e Cooper Koch nei ruoli dei fratelli e una recitazione esagerata e posticcia, un po’ come il resto della serie. Si salvano Javier Bardem e Chloë Sevigny nei ruoli dei genitori Jose e Kitty - ironico visto che vediamo più e più volte la loro morte - ma è evidente che il racconto è impuro abbastanza da fregarsene delle interpretazioni, rimanendo incentrato sullo scovare ogni singolo scheletro nascosto nell’armadio. Forse aggiungendone anche uno in più, come il presunto legame incestuoso tra Lyle e Erik, all’apparenza licenza poetica della stagione, per aggiungere un’ulteriore sfumatura a una storia che non vuole venire rappresentata né totalmente bianca, né nera. E mentre ci si continua a chiedere chi siano davvero i mostri, se chi li insemina, chi li partorisce, chi li tortura, chi li elogia o chi li sfrutta – o chi li segue passo per passo, serie dopo serie - Murphy e Brennan sanno già su chi basare la terza stagione: Ed Gein, classe 1906 e nato a La Crosse, noto per necrofilia, smembramenti e profanazione di bare da cui prendeva pezzi di corpo dai defunti per farci oggetti d’arredamento. A interpretarlo sarà Charlie Hunnam. Un’altra stagione da aspettare per scoprire fin dove l’umano può arrivare. E, con lui, anche la serialità con i suoi adepti.