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Paolo Sorrentino, un cinema in cui “ti ci perdi dappertutto”

Da L’uomo in più a Parthenope, dall’esteta all’uomo

Paolo Sorrentino, un cinema in cui “ti ci perdi dappertutto” Da L’uomo in più a Parthenope, dall’esteta all’uomo

«Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto». La frase è di Louis-Ferdinand Céline e la citazione apre l’ultimo film di Paolo Sorrentino, Parthenope. Ed è incredibile come, nel prendere dalle parole del poeta francese, il regista e sceneggiatore napoletano sembri parlare non solo dell’esistenza in sé, ma di ciò che è il cinema. Non in termini pieni, assoluti. Ma di cosa può essere la filmografia di ogni autore. O, almeno, di quelli le cui opere sono state "bigger than life". È il caso proprio del giovane che scrisse una lettera a Massimo Troisi per andare a lavorare su un suo set e che ai suoi inizi fece da assistente alla regia per I ladri di futuro di Enzo Decaro. E che col suo (secondo) film sulla giovinezza racchiude tutta la propria cinematografia, anche più di quanto aveva fatto col precedente, e magnifico, È stata la mano di Dio. Ambientato nel 1950 e andato avanti fino a giungere ai nostri giorni, Parthenope prende il nome dalla sua protagonista che, a propria volta, se lo vede affibbiato come omaggio e ammirazione non verso il mito della sirena greca, ma del lembo di terra tra il Vesuvio e i Campi Flegrei che si staglia all’orizzonte nel momento della sua nascita. Una giovane a cui non serve cantare per attirare i mariani, basta la sua bellezza. Quella grande che Sorrentino aveva già raccontato, vincendoci anche l’Oscar, e che tematicamente viene riportata nell’opera con l’esordiente Celeste Della Porta, diventando quasi un compendio di tutto ciò che aveva fatto dall’inizio della sua carriera, fino al suo recente auto-ritratto.

A mancare, nel film, è giusto il suo attore-doppio, Tony Servillo. Altrimenti c’è tutto. C’è lo scudetto del Napoli, declinazione della sua passione calcistica e del mito di Maradona (non a caso ha chiamato la sua casa di produzione Numero 10), c’è l’amore per “la città più bella del mondo” in cui, a quanto pare, quando la si abita non si può essere felici, e ci sono tutti i feticismi narrativi e stilistici che lo hanno contraddistinto. Ma, sopra a ogni cosa, c’è la fusione tra questi. Ci sono i due Paolo Sorrentino che hanno da sempre reso ambiguo e affascinante il regista del Vomero. Il suo aggrapparsi forsennatamente agli umani e il suo volerli esaltare alle figure ridicole, sciocche e kitsch che lo hanno sempre accompagnato (ma niente suore, stavolta, sebbene a Dio ci arriveremo presto). Parthenope è perciò il ritratto più vero del regista, seppur anche il più sgangherato, vuoto, inconsistente, nonostante sia pieno del suo stesso tutto - con quel pizzico di male gaze che Sorrentino ha sempre avuto. È l’inseguimento di personaggi terreni, dal Tony Pisapia dell’esordio de L’uomo in più al coacervo di corruzione che si riduceva a una coppa di gelato ne Il divo. È l’umanità di un uomo sotto al suo trucco in This Must Be the Place o gli ultimi giorni di vita in un soggiorno circondato dalle alpi svizzere in Youth. È la verità dei suoi protagonisti, è il loro essere carne e sentimenti visto che, come diceva il suo Mick Boyle/Harvey Keitel, non è vero che le emozioni sono sopravvalutate.

E, in questo pienone di personaggi che è Parthenope, c’è poi il formalismo, l’aspetto. La patina che Sorrentino ha riproposto uguale seppur diversa ogni volta, riconducibile al suo marchio – questa volta virato verso l’haute couture, visto che ad investire c’è Saint Laurent. Sono gli eccessi intellettuali e decadenti de La grande bellezza, le pillole che cadono dal cielo e le giovani che ballano ai party del suo Silvio Berlusconi in Loro. È così il regista, vano e vanitoso, profondo e effimero. Sempre con la risposta pronta, come la sua Parthenope: «Hai notato che nei vecchi film i personaggi ce l’hanno sempre». Il sacro e il profano che ha raggiunto il suo apice nella serialità nel 2016 con The Young Pope, dove il suo interrogare Dio (e no, stavolta non Maradona) lo ha catapultato in una delle operazioni più terresti mai fatte: un Papa che scopriamo uomo, mentre nel suo cinema qualsiasi uomo o donna si agghindava d’oro per diventare santo. Anche in Parthenope, attendendo il miracolo di San Gennaro

E, come tocco finale, l’inaspettato. A cui nemmeno Parthenope ha potuto rinunciare. Spogliandosi di tutto e mostrandosi splendidamente se stesso, così lontano da ciò che ci aveva mostrato fino a quel momento, ma così vicino alla sua più intima natura, È stata la mano di Dio ci ha rivelato che anche Paolo Sorrentino ha un cuore, uno che batte come noi, e non al ritmo di A far l’amore comincia tu. Un’autobiografia che aveva «qualcosa da dicere». Il racconto di chi era Sorrentino, di come lo è diventato, di un mare che si apriva davanti agli occhi nel film più azzurro della sua filmografia, dove spiega le superstizioni, i pranzi di famiglia, le zie bellissime che prendono il sole nude e le partite del Napoli vinte che hanno dettato in maniera irreversibile il suo immaginario. Chiudendo con la più inattesa delle canzoni, visto il portato popolare, eppure unico brano possibile: Napule è di Pino Daniele, mentre Filippo Scotti/Fabietto Schisa/Paolo Sorrentino su un treno seduto al finestrino si dirige verso Roma, verso il futuro. C’è un pezzetto di È stata la mano di Dio in Parthenope. Ormai ci sarà sempre, non si torna più indietro. Sorrentino si è scoperto, denudato, sappiamo cosa si cela dietro al suo estetismo. Il giro di boa è stato fatto, da adesso potrà tornare al fanatismo esagerato e che in Parthenope, purtroppo, è anche troppo accentuato. Ma ci ha fatto un dono di cui dovremmo essergli grati: ci ha permesso di godere delle opere di un grande artista e, nel corso della sua cinematografia, di capire come lo è diventato.