L’estetica di Pedro Almodóvar in quattro film
Da Pepi, Luci, Bom a The Room Next Door, in anteprima al Festival di Venezia
05 Settembre 2024
«Il rosso è una scelta istintiva per me. Naturalmente amo molto il colore rosso. Ma credo di usarlo perché dà intensità al luogo in cui lo si usa. È un colore molto espressivo e in Spagna il rosso rappresenta anche la vita, il fuoco, la morte, il sangue, la passione e i garofani, che sono il fiore nazionale. Da un punto di vista tecnico, se si gira una scena notturna, il rosso conferisce una certa luminosità. Inoltre, questo è il motivo per cui tutte le auto sono rosse nei miei film. Se metti un'auto rossa in campagna, il rosso esalta i colori naturali».
I primi film di Pedro Almodóvar chi vi scrive li ha visti assieme alla madre, da un divano rosso della casa in cui è cresciuta. Sembra un’immagine finta, considerato il tema che stiamo per affrontare, eppure è così, forse la prova più concreta di quanto, nei colori e nella poesia con cui racconta la vita delle donne, il regista spagnolo ci azzecchi. Lo riesce a fare anche parlando di eutanasia, nel nuovo film (il primo in inglese dopo il corto Strange Way of Life) The Room Next Door, in anteprima questa settimana al Festival di Venezia e in uscita nelle sale italiane a dicembre. L’ultimo progetto di Almodóvar tratta un tema sottile e divisorio come il suicidio assistito attraverso la storia di un’amicizia tra donne, protagoniste argute, coraggiose (a volte fin troppo) e dall’intelligenza emotiva spiazzante. I personaggi di Julianne Moore e di Tilda Swinton ricordano le prime opere del regista spagnolo, anche se americanizzate. Anche in The Room Next Door, se il tanto amato rosso sangue di Almodóvar sembra ammiccare solo ai colori della terra natale del regista, al sesso e al dramma, dopo poco si rivela tutt’altro, un riflesso passionale delle eroine che rappresenta. Per ragioni comprensibili, in The Room Next Door non ritroviamo il rosso come sensualità ma come premura, nondimeno è sempre lì, sullo schermo a restituire su piano visivo lo stesso pathos che il regista mette nelle sue sceneggiature, a lasciare l’audience puntualmente scombussolata da donne forti, ma comuni.
La Movida Madrileña - Pepi, Luci, Bom e Donne sull’Orlo di una Crisi di Nervi
Con una carriera che spazia dagli anni ’70 a oggi, è pressoché impossibile descrivere in pochi paragrafi l’estetica di Almodóvar. Ci si può provare partendo da Pepi, Luci, Bom(1980), il primo feature film del regista che, completato cinque anni dopo la fine della dittatura di Francisco Franco, offre un ricco antipasto di tutto ciò che Almodóvar avrebbe portato sul grande schermo anni dopo. Raccontando dell’amicizia tra una cantante punk lesbica, una protagonista in cerca di vendetta dopo aver subito uno stupro e una casalinga masochista, l'uscita del film ha disgustato i critici ma è arrivata al cuore del pubblico spagnolo, al tempo in cerca di storie irriverenti e camp capaci di trattare temi che fino a prima venivano censurati dalla dittatura. La Movida Madrileña era questo, una controcultura che voleva parlare di sesso e di identità liberamente, un contenitore artistico in cui l’estetica di Almodovar ha potuto formarsi, crescere e allargarsi. Mentre il regista spagnolo racconta alla stampa di aver trovato ispirazione nelle opere di Luis Buñuel, di Andy Warhol, di John Waters e di Alfred Hitchcock per formare il suo stile, per i critici il surrealismo di Almodòvar è sempre stato unico, descrivibile solo dal termine almodovariano. Come altro definiresti un film in cui un’attrice prepara un gazpacho corretto col sonnifero per il fidanzato, che però viene bevuto da un'altra mentre un'amica racconta di essere in fuga dalla polizia perché ha scoperto di essere fidanzata con uno sciita? A Donne sull’Orlo di una Crisi di Nervi(1988) sarebbe bastato lo splendido appartamento della protagonista («Se avessi avuto i soldi, avrei chiesto a David Hockney di disegnarlo», aveva scritto il regista per The Guardian) per entrare nel cuore degli spettatori, ma tra l’interpretazione di Rossy de Palma, la perfezione di Carmen Maura e la storia rocambolesca delle due (mettiamoci anche l’aiuto di Antonio Banderas), il fantastico interior design e le strade brillanti di Madrid passano quasi in secondo piano.
Il femminismo in Tutto Su Mia Madre
Dopo Donne sull’Orlo di una Crisi di Nervi, che ha portato Almodóvar a vincere il suo primo Oscar grazie a un cocktail pazzesco di sceneggiatura avvincente, personaggi intensi e look accecanti - vestiti a pois, tailleur anni ’60 e orecchini a forma di caffettiera inclusi - il regista torna a stregare il mondo intero dieci anni più tardi, con Tutto Su Mia Madre(1999). Raccontando la storia di una donna che ha perso il figlio adottivo e che va alla ricerca della madre biologica, il film parla ancora una volta di un gruppo di donne straordinarie, da una suora incinta e malata di AIDS (interpretata da una giovanissima Penelope Cruz) che deve fare i conti con il proprio destino a un’attrice transgender che viene infine alla scoperta della perdita del suo primogenito. La scena iniziale offre un riferimento diretto ad All About Eve(1950), opera da cui il film prende ispirazione, così come alla teatralità che caratterizza un racconto tempestato da temi attuali, negli anni ’90 come oggi. In Tutto Su Mia Madre, la drammaticità e la commedia si intrecciano in una danza rosso sangue che come sempre fiammeggia nelle case e nei guardaroba delle protagoniste: Almodóvar si destreggia tra il femminismo e l’epidemia dell’AIDS con una sensibilità esemplare, un esercizio di attenzione che, nel 2024, ritroviamo arricchito e fiorente in The Room Next Door. Già in Tutto Su Mia Madre, anni prima che il cinema mettesse in discussione la capacità dei registi uomini di scrivere ruoli femminili, Almodóvar crea personaggi meravigliosi che non cocciano, quando messi a confronto, ma risplendono. Mentre gli altri erano impegnati a disegnare una Jessica Rabbit sexy, perché «m’hanno disegnata così», il regista spagnolo mette alla prova la sua conoscenza dell’universo femminile dimostrando che per le donne il colore del sangue non è solo sensualità, ma anche dolore, follia, rabbia, coraggio, calore. E infine gioia.
The Room Next Door porta il nuovo rosso Almodóvar a Venezia
Negli ultimi vent’anni il rosso almodovariano è andato sbiadendo ma la centralità del colore, nelle opere del regista, è rimasta invariata. In The Room Next Door torna a colorare gli abiti, il volto e le case delle protagoniste in istanti precisi, quasi a richiamare l’attenzione del pubblico su scene chiave in cui le battute hanno bisogno di particolare ascolto. Anche se la sua filmografia è meno kitsch di prima, più pulita e ordinata, ritroviamo in qualsiasi scelta stilistica lo stesso Almodóvar di Tutto Su Mia Madre: un creativo ossessionato dalle emozioni delle donne e dalla loro rappresentazione sotto forma di abiti, di divani, di uscite ironiche. Oggi il surrealismo di Almodóvar ha trovato spazio nel lusso grazie a Saint Laurent, che ha firmato gli abiti di Strange Way of Life, e a Loewe, con Jonathan Anderson autore dei look indossati dal regista di The Room Next Door al Festival di Venezia, ma il suo universo continua a parlare allo stesso pubblico di sempre, fatto di persone comuni dalle vite straordinarie: donne che provano a far svenire il proprio fidanzato con un gazpacho imbottito di farmaci, donne che giurano fede a Dio ma poi si ritrovano incinte di un comune mortale, donne che guardano un film insieme alla mamma da un divano rosso e infine donne che suggeriscono alla figlia di vederlo insieme, dallo stesso divano rosso.