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Il sequel di Beetlejuice segna il ritorno di Tim Burton?

Sono anni che i suoi fan sperano in un ritorno alle origini. E, forse, lo hanno finalmente avuto

Il sequel di Beetlejuice segna il ritorno di Tim Burton? Sono anni che i suoi fan sperano in un ritorno alle origini. E, forse, lo hanno finalmente avuto

«I swear, afterlife is so random»: non potremmo che concordare con Jenna Ortega, soprattutto se si tratta dell’aldilà di Tim Burton. L’attrice all’occhiello del papà di Edward mani di forbice e Big Fish, sua protagonista designata per la Mercoledì di Netflix, insieme al regista del bizzarro per antonomasia, apre l’81esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, entrando a far parte di un ritorno inaspettato. Una festa macabra, ma ilare, che richiama a raccolta Winona Ryder, Michael Keaton e Cathrine O’Hara per il sequel fuori concorso Beetlejuice Beetlejuice, ritorno dopo trentasei anni dal debutto al cinema della storia che annullava il confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, uscito in sala nel 1988 e che vedeva nel cast anche Alec Baldwin e Geena Davis. 

Che Burton avesse bisogno di tornare a qualcosa di familiare era chiaro. Alcuni trascorsi ben poco felici (Miss Peregrine - La casa dei ragazzi speciali, Dumbo) lo avevano già spinto verso qualcosa di più affine al suo immaginario, sebbene anche la serie sulla figlia maggiore della famiglia Addams fosse un evidente compromesso tra mantenimento della propria identità e prodotto prettamente commerciale. Il vecchio cineasta di Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street era diventato da anni, ormai, l’ombra di sé stesso, al punto massimo del suo scolorirsi proprio quando, si potrebbe dire finalmente, era riuscito ad entrare dalla porta di ingresso nella dimora Disney, in cui tutto era cominciato nei suoi inizi bistrattati a diciotto anni per la fabbrica di Topolino. Dopo gli elefanti rosa in CGI del live-action Dumbo, però, l’esigenza per l’autore e i suoi fan di riaffondare nelle origini era più che giustificata, spingendo Burton a riprendere in mano l’idea di realizzare un seguito, quello con maggior richiesta come proseguimento della sua filmografia, in cui il più tosto da convincere era lo “spiritello porcello” Keaton. 

L’interprete di Batman e Il caso Spotlight, nonché Beetlejuice per eccellenza, aveva solo una richiesta: che il nuovo film fosse all’altezza degli effetti artigianali che avevano contraddistinto la fantasia del primo. Solo così sarebbe potuto esistere. Il desiderio era che Tim Burton non sfruttasse le prodezze del digitale - lui che, a prescindere dai risultati più o meno modesti, è tutto ciò che di più lontano potrebbe esserci dall’era dei computer e degli smartphone (tanto che c’è anche una sequenza nella pellicola a riguardo) - per tornare a un avanzo di immaginifico che fosse autentico, manuale, tangibile. E, con tutte le leggerezze del caso, con il sequel così è stato. Con Beetlejuice Beetlejuice Burton, su sceneggiatura di Alfred Gough e Miles Millar, ci catapulta ancora una volta nella cittadina di Winter River, riportandoci sulla collina su cui svetta la casa bianca a più piani (seppur coperta ora da un sudario nero) della famiglia Deetz. Lydia, la diciassettenne di Ryder diventata una madre e una medium professionista, ha un programma televisivo sulle abitazioni stregate e deve affrontare la strana presenza, tornata alla riscossa, del demone di Keaton. 

Impegni che la rendono ancora più nevrotica agli occhi della figlia Astrid (Ortega), che non crede nel potere del genitore e deve anche accettare l’imminente matrimonio della donna con lo sgradevole manager Rory (Justin Theroux). Le interferenze dall’aldilà, però, potrebbero mandare tutto all’aria, dovendo addirittura richiedere l’aiuto dell’innominabile Beetlejuice, inseguito a sua volta dalla vendicativa ex moglie Delores (Monica Bellucci). Protagonista, tra l’altro, della sequenza del “ricucimento” sulle note di Tragedy dei Bee Gees, ovvero la più alta quota di cinema burtoniano come non se ne vedeva da tempo, oltre che eco a due delle sue migliori protagoniste, la Sally di Nightmare Before Christmas e la Emily de La sposa cadavere. 

Di materiale, dunque, in Beetlejuice Beetlejuice ce n’è parecchio. Col rischio che, in alcuni punti, sia addirittura troppo. In breve abbiamo: una Monica Bellucci/Dolores che vortica nell’aldilà, Beetlejuice che vuole arrivare nell’aldiquà, Winona Ryder che si impasticca per rendere la sua esistenza con gli spiriti meno dura e la figlia Astrid/Jenna Ortega che si ritrova invischiata in una creepy love story. Eppure, nell’inferno di Tim Burton fatto di vermi del deserto e sale d’attesa infinite, il regista ci invita a prendere un biglietto, a sederci per guardare e godere del tempo che abbiamo da trascorrere nel regno dei morti. Un universo che, pur non ugualmente eccentrico o straboccante come lo era stato il cult anni Ottanta, accetta di sperimentare con macro scene o personaggi dettagliati, restituendo ciò che da troppo tempo mancava all’ossatura e alla linfa del cineasta: personalità.  

E personalità significa usare l’ingegno. Come nello spiegare il rapporto del protagonista con la passata coniuge, in cui Beetlejuice si lancia in un lungo ricordo in bianco e nero per cui Burton sceglie l’italiano come lingua per ripercorrere la storia d’amore tra l’uomo e la donna (un omaggio, tra i tanti, al cinema italiano, come il suo citare apertamente Operazione paura di Mario Bava), mentre per il finale ci riserva una lunga scena musicale in cui i personaggi volteggiano nell’aria come fossero in La La Land (“Amo le sequenze da sogno”, confessa il protagonista di Michael Keaton al pubblico, rompendo la quarta parete). E, di filato, ma sempre pronto sull’attenti, c’è il capo del dipartimento contro i crimini dell’aldilà col suo caffè sempre caldo in mano Wolf Jackson, attore che, anche da defunto, mantiene il ruolo che lo ha reso iconico tra i viventi, impersonato con ironia e una massiccia dose di comicità da un divertente e divertito Willem Dafoe. 

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«Deve essere reale» è la quote preferita di Wolf Jackson. E, vista la convinzione che mette nelle parole e il fatto che non potrà mai essere reale un così sottile e buffonesco scambio tra aldilà e vita vera, la frase sembra più un incitamento di Tim Burton a Tim Burton stesso affinché riesca a riempire e far trasparire da Beetlejuice Beetlejuice il dovuto entusiasmo. Ad alimentare un coinvolgimento che il film reclama ad ogni inquadratura, ad ogni trovata orrorifica e ad ogni nonsense o assurdità rinvenuta. Fantasticare può essere reale, soprattutto se da Michael Keaton a Winona Ryder, da una splendida Catherine O’Hara a un volto oramai fisso nell’immaginario di Burton come Jenna Ortega, tutti si impegnano al massimo per restituire un pizzico di ingenuità del passato, con una spruzzata di novità.

E se un vestito per Halloween da “mutuo irreversibile” può far accapponare la pelle, e fa probabilmente capire un po’ di più perché il regista ha accettato di snaturarsi per major come Disney o Netflix, alla domanda di Delia/O’Hara a Lydia/Ryder su «Dov’è finita quella ragazzina dark che mi tormentava?» possiamo provare a rispondere noi, rivolgendola però a Tim Burton. Un regista che, sebbene si fosse perso, almeno per Beetlejuice Beetlejuice sembra essere tornato. Di cui si percepisce il piacere di una cinematografia libera come al principio (il primo Beetlejuice era il suo secondo lungometraggio), un bambino felice di giocare con universi improbabili, strani e pieni di amici con la testa non certo sulle spalle (testa che, a volte, non ce l’hanno nemmeno). Alla fine, a quanto pare, era semplice. Bastava solo chiamare lo spirito giusto per tre volte: Beetlejuice Beetlejuice Beetlejuice.