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La psicologia dietro all’hate-watching

Blake Lively, il ritorno di Emily in Paris e perché ci piace dedicare il nostro tempo a cose che non ci piacciono

La psicologia dietro all’hate-watching  Blake Lively, il ritorno di Emily in Paris e perché ci piace dedicare il nostro tempo a cose che non ci piacciono

Gli psicologi spiegano gli episodi di cute-aggression in due modi: il primo, legato all’evoluzione, sostiene che che vedendo qualcosa di carino come un bambino o un cucciolo il nostro cervello produca alti livelli di ossitocina (anche conosciuto come l’ormone dell’amore), che ci spinge a proteggere ciò che viene considerato vulnerabile attivando l’aggressività; il secondo, che alla vista di un animale adorabile proviamo un sovraccarico di emozioni, perciò la nostra mente, per compensare lo squilibrio, sviluppa una risposta aggressiva portandoci a esclamare di fronte a un bebè frasi piuttosto particolari come «ti morderei le guance». È strano il nostro cervello, ci porta a fare o a dire cose che non vorremmo, a comportarci in maniera totalmente opposta ai nostri valori o al nostro interesse rispondendo per istinto primordiale, secondo una logica tutta sua. È un po’ quello che capita quando ci ritroviamo ammaliati di fronte alle conseguenze disastrose di un incidente di automobili, o ancora quando andiamo a controllare su Instagram o su X quello che combinano le celebrity che non sopportiamo. Un fenomeno del genere sta accadendo attorno alla figura di Blake Lively, l’attrice protagonista del nuovo film It Ends With Us che negli ultimi giorni sta ricevendo valanghe di critiche online, ma altrettante attenzioni. Secondo le affermazioni dei più fidati hater, Lively sarebbe una persona insopportabile ed egocentrica, qualità confermate sia dal suo comportamento durante il press tour dell’attuale nuova pellicola, sia da vecchie riprese delle sue interviste, in cui, a quanto detto dagli utenti che le hanno rimesse in circolo, «si vede chiaramente che i suoi colleghi non la sopportavano». L’ingente quantità di critiche sollevate nei confronti di Lively spinge i meno coinvolti a chiedersi quanto sia importante concentrarsi su personaggi pubblici che non rispettiamo. Se non è davvero una brava persona, perché darle tutte queste attenzioni? Il fenomeno dell’hate-following, ossia seguire assiduamente tutto ciò che una persona che non ci piace pubblica online, va di pari passo con l’hate-watching, che invece significa guardare serie e film che detestiamo, ed entrambi hanno a che fare con il modo in cui gli umani (non sanno) gestire le emozioni forti.

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Prima di approfondire come la chimica del nostro cervello ci induce a dedicare ore del nostro prezioso tempo a personaggi, storie, celebrity - ma anche amicizie e relazioni - che in verità odiamo, il tema dell’hate-entertainment necessita di una considerazione più ampia. Anni dopo la fine dell’affitta-cassette, della televisione e del cinema come unici luoghi in cui scoprire nuovi film e serie TV, internet ha davvero cambiato il modo in cui consumiamo i contenuti. Basti pensare a piattaforme come TikTok: bombardati da video della durata di uno o due minuti, abbiamo l’imbarazzo della scelta, così ci lasciamo assecondare dall’algoritmo e dalle sue infinite proposte, ci perdiamo in tunnel infiniti come le story time in cinquanta parti o le narrazioni lugubri di omicidi o altri drammi a episodi. Si dice che i social media siano organizzati come una slot machine, con lo “scrolling” e il “refresh” che imitano lo stesso gesto dall’alto verso il basso che si utilizza con le macchine d'azzardo per suscitare nell’utente lo stesso senso di ricompensa che, a lungo andare, dà dipendenza.

Anche le piattaforme streaming, che nel loro archivio ospitano ormai centinaia di opzioni, ci lasciano perpetuamente indecisi o, peggio ancora, sconfitti di fronte a un film che non volevamo davvero guardare. Avere l’imbarazzo della scelta è una cosa bellissima, ma quando la quantità supera la qualità rischia di farci perdere la bussola del benessere mentale. E così contenuti come Emily in Paris, la serie Netflix che racconta la vita di un americana nella capitale francese e che grazie alle critiche è adesso arrivata alla sua quarta stagione, diventano terreno fertile per l’hate-watching. Criticandone gli abiti, la recitazione, la trama e persino il carattere dei personaggi, il pubblico ha trasformato lo show da tentativo di cult televisivo grossolanamente mancato a successo commerciale grazie alla rabbia che suscita. E alle compagnie dietro al prodotto non interessano i motivi per cui viene guardato da milioni di spettatori, come scrive Alissa Wilkinson per il New York Times, «le aziende tecnologiche riconoscono una sfortunata verità: incentivare i nostri impulsi peggiori è molto più redditizio che sfruttare quelli migliori. In questo vuoto senza contesto, un occhio è un occhio, sia che il cervello dietro di esso sia inondato di dopamina o di adrenalina. Un clic è un clic, sia che siate contenti o arrabbiati». 

Dietro all’amore-odio del pubblico per Emily in Paris e adesso anche Blake Lively esistono spiegazioni psicologiche piuttosto semplici. La prima è che trovare “capri espiatori” su cui ribattere tutto il nostro rancore e la nostra rabbia è un modo piuttosto sano di tirare fuori sentimenti socialmente considerati negativi, che altrimenti espieremmo in maniera poco conveniente. Secondo una recente ricerca dell’American Psychological Association, solo provando tutti i sentimenti della sfera motiva (e al momento giusto) riusciamo davvero a essere felici - una sorta di Yin e Yang dei contenuti: hai bisogno di Titanic come di 50 Sfumature di Grigio, di Breaking Bad e di Fleabag come di Emily in Paris e di And Just Like That. Contemporaneamente, il successo dell’odio per serie famose crea un senso di community, una sorta di hater-dom - invece che di fandom - dedicato a tutti quelli che pubblicano recensioni terribili sui social commentando il malaugurato senso estetico di Emily. Per ultimo, e qui torniamo alle teorie che validano la cute-aggression, amore e odio sono profondamente uniti tra loro. Come spiega la psicoterapeuta Sally Baker alla testata Independent, «il cervello, fondamentalmente, non fa distinzioni. Quando prestiamo un'attenzione intensa a un soggetto, si attiva il rilascio di ossitocina, serotonina e dopamina. Gli ormoni del benessere vengono rilasciati quando si è coinvolti emotivamente con qualcuno, indipendentemente dalla motivazione, e danno luogo a una risposta emotiva accesa».Come dimostra il detto che da decenni tiene in piedi l’intero sistema marketing e entertainment, “all press is good press”, sia che riceva aspre critiche o profonda ammirazione: l’importante è rimanere collegati.