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La svolta teen di "Alien: Romulus"

Cailee Spaney è la protagonista dello sci-fi che segue le orme del cult di Ridley Scott

La svolta teen di Alien: Romulus Cailee Spaney è la protagonista dello sci-fi che segue le orme del cult di Ridley Scott

Arrivati al 2024 sono nove i titoli che vorticano intorno alla saga di Alien (sarebbero dieci se contassimo il sequel apocrifo di Ciro Ippolito del 1980, ma decidiamo volontariamente di non farlo). L’universo è stato esplorato da varie angolazioni: il sequel canonico, passato di mano in mano anche ad altri registi - il terzo lanciò la carriera di David Fincher, sebbene lui lo rinneghi -, il prequel che cercava di spiegare la nascita degli xenomorfi (e degli esseri umani tutti, nonché il senso della creazione) e i crossover, dove gli alieni di Ridley Scott si sfidavano con i Predator di John McTiernan, nel loro primo scontro sotto la regia di Paul W. S. Anderson. I temi sono stati tanti, spesso vari, ma sempre sotto l’egemonia della forza imbattibile delle creature nate dalla mente di Dan O’Bannon e Ronald Shusett. Lo è anche Alien: Romulus, che temporalmente si colloca tra il primo e il secondo capitolo, raccontando una storia laterale e indipendente composta da un cast di tutti giovani. Protagonista è Rain Carradine, l’avviatissima Cailee Spaney che solo nell’ultimo anno abbiamo visto anche in Priscilla e Civil War, stavolta affiancata da David Jonsson (protagonista dell’indie Ritrovarsi in Rye Lane) e Archie Renaux (nella serie Tenebre e ossa di Netflix) per una missione di auto-salvataggio che, come è prassi nella saga, finirà in un bagno di sangue. I personaggi della pellicola di Fede Alvarez, che già aveva tentato (fallendo) di riavviare un altro franchise con Millennium - Quello che non uccide, sono prigionieri di un pianeta che non permette loro di partire per lidi migliori, in cui poter finalmente veder splendere la luce del sole. Nella speranza di smuovere una condizione disperata, i protagonisti intercetteranno un relitto che potrebbe fare al caso loro. Raggiungerlo, impostare la rotta e ibernarsi per i prossimi nove anni: un piano facile quello da seguire, se ad aspettarli non ci fosse una delle più spaventose minacce dell’universo.

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Come resettato il lavoro quasi decennale dei prequel Prometheus e Covenant, non volendolo annullare, bensì scegliendo semplicemente di prendere un’altra direzione e lasciare l’automa David (interpretato da un magistrale Michael Fassbender) ai suoi deliri, Alien: Romulus dà subito la sensazione di volersi stabilire come ponte di collegamento tra presente e passato. Lo sentiamo fin dalla scena iniziale. Immersa nello spazio, una navicella entra in campo mentre la camera ne ispeziona la superficie esterna. Nessun rumore, c’è solo l’ovattato silenzio di un posto in cui non esiste altro a portata di udito. Era in fondo “Nello spazio nessuno può sentirti urlare” la miglior tagline dell’opera sci-fi del ’79, che ha continuato a riverberare tanto quanto il suo successo e lo statuto iconico della protagonista Ripley, l’inarrestabile Sigourney Weaver. Il resto dell’impianto di Alien: Romulus prosegue nella maniera più convenzionale possibile, per un’operazione di ripresa del franchise che non ha certo bisogno di essere ri-scoperto, seppur l’intenzione di un racconto in versante teen può essere visto come il cercare l’attenzione di un nuovo pubblico che si approcci alla saga. Per l’intera durata della pellicola, dopo aver preparato tutto per il viaggio, i personaggi e gli spettatori si ritrovano su una nave che, oltre ad una possibile via di fuga, porta con sé anche un pericolo inatteso per gli ospiti dell’astronave, ma assai familiare per chi osserva da fuori. E così sarà per il resto del film. Mentre i protagonisti rimangono costantemente sorpresi dalle atrocità che accadono intorno, a chi resta al sicuro sulla poltrona del cinema le sorti dei personaggi sembrano già inevitabilmente segnate, filando esattamente come ci si sarebbe aspettato. 

La percezione è trovarsi di fronte a un’opera che ha fatto un buon lavoro con il minimo indispensabile. Dimenticati gli arrovellanti test dei due film precedenti (Prometheus del 2012 e Covenant del 2017), che pur non apprezzati all’unanimità hanno fornito tesi, saggi e riflessioni che hanno contribuito ad alimentare per un altro decennio la storia di Alien, Romulus ha in sé meno teoria e più pratica. Ha un certo slancio creativo, almeno quanto basta. Gli scervellamenti sugli xenomorfi sono dunque affievoliti, come il domandarsi da dove provengono e come combatterli, anche se in minima parte la pellicola prova a spiegarlo. Ma alla base, per l’impalcatura dell’opera, si adottano soluzioni ben rodate, per un blockbuster godibile – per gli amanti del genere – che non ha però mai dei veri picchi. 

Una pellicola che sa anche spaventare in alcune sue parti, dove l’azione è concitata e i tragici destini dei personaggi rispettano ossequiosamente una certa coerenza. Eppure la sua sufficienza precisa e l’intenzione di non sporcarsi le mani finisce per renderne sterile la ricezione, oltre che meno polarizzante, non come avevano saputo fare i dibattiti aperti dagli esperimenti del Prometheus di Scott, con il robot di Alien: Romulus che ci tiene solo a definirsi “persona artificiale” e null’altro. Niente di scioccante, quindi. Né di insolito o controverso. Il film è un ottimo prodotto alla Alien e, come tale, merita di essere ricordato. Che quel silenzio del principio fosse, però, premonitore: un titolo che rimane una nomade persa nella cinematografia di una saga che ha riscritto i confini del cosmo e che, invece di ampliarlo, ne apre e chiude velocemente uno spiraglio, giusto il tempo di un’altra storia.