Vedi tutti

Cosa ci fa uno skatepark al Centre Pompidou

Geometrico e colorato, vuole celebrare la presenza dello skate alle Olimpiadi

Cosa ci fa uno skatepark al Centre Pompidou Geometrico e colorato, vuole celebrare la presenza dello skate alle Olimpiadi

Ai piedi del Centre Pompidou di Parigi di recente è stato installato uno skatepark, realizzato dall’artista Raphael Zarka e dall’architetto Jean-Benoît Vétillard in collaborazione con Nike. L’opera, chiamata Cycloïde Piazza, con suoi colori vivaci e lo stile geometrico – che a tratti ricorda quello di Alessandro Mendinimescola arte contemporanea e sport: rientra infatti nella serie di iniziative culturali organizzate a Parigi per le Olimpiadi – al via il 26 luglio. Ma non è la prima volta che uno skatepark sbarca in un’istituzione museale: nel 2019, ad esempio, la Triennale di Milano aveva ospitato un grande skatepark appositamente progettato dall’artista sudcoreana Koo Jeong. Cycloïde Piazza – aperta tutti giorni dalle 11 alle 20, fino a metà settembre – grazie ai suoi 600 metri quadrati di estensione offre numerose rampe, così come gradinate e podi, dove può sostare anche chi non fa skate.

Lo skateboard ha debutatto come sport olimpico a Tokyo 2020: solitamente l’ammissione alle Olimpiadi per le singole attività sportive rappresenta una vera e propria consacrazione, ma per lo skate non è stato del tutto così. Il suo arrivo alle Olimpiadi, infatti, ha generato molto dibattito, anche e soprattutto tra i professionisti. Lo spirito che sta alla base della skateboard è strettamente legato alla cultura-street, e per molto tempo è stato svincolato dai rigidi sistemi che regolano e danno fondamento agli altri sport. La spettacolarità fine a sé stessa, ad esempio, era ed è uno dei principi cardine dello skate. A questa libertà di espressione ha contribuito soprattutto la conformazione degli stessi skatepark, che a farci caso sono molto diversi l’uno dall’altro in base agli spazi progettati o ricavati nelle varie città, cosa che ha favorito la nascita di diversi modi di interpretare e fare skate. I primi skater, ad esempio, praticavano questa attività soprattutto nelle piscine vuote della California – non erano dunque presenti scale, dislivelli o corrimani: elementi, questi, che oggi caratterizzano invece molti skatepark di impronta più urbana, e che hanno influenzato lo skateboard rendendolo maggiormente tecnico, aprendo così la strada ai cosiddetti trick. È per questo che alle Olimpiadi lo skateboard si suddivide in due discipline distinte: c’è la categoria «Park», con rampe ripide e verticali, e la sezione «Street», dove il terreno di gara presenta una conformazione più urbana.

Come nasce e si sviluppa lo skateboard

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta i surfisti del Sud della California si ritrovarono a doversi inventare qualcosa che li impegnasse quando non c’erano onde abbastanza alte: iniziarono così a fare sidewalking surfing («surf su marciapiede»), con prototipi di skate che a partire dagli anni Sessanta sono diventati sempre più simili alle tavole che conosciamo oggi. Fin dai tempi del sidewalking surfing la dimensione comunitaria è stata l’elemento chiave per la diffusione dello skateboard. La valutazione sportiva e la necessità di vincere gare per affermarsi, per molto tempo  – e in parte è tuttora così – sono state del tutto in secondo piano rispetto al consenso del pubblico durante i contest. Per decenni gli skater, inoltre, sono stati spesso malvisti, proprio perché la loro attività poteva essere praticata potenzialmente in qualunque zona della città, senza necessitare di spazi delimitati, cosa che non ha contribuito a farla affermare come un vero e proprio sport.

Tuttavia, la popolarità dello skateboard negli anni è sempre più aumentata, e le competizioni sono arrivate persino in televisione, stimolando la diffusione di riviste, store ed eventi. Negli anni Novanta e Duemila sono nati anche veri e propri festival dedicati, e il volume d’affari ha continuato a crescere, preservando comunque l’aspetto comunitario che aveva caratterizzato la pratica nei decenni precedenti – cosa che, a farci caso, non è così comune in altri sport. Per questa ragione i dubbi sull’arrivo dello skateboard alle Olimpiadi erano più che altro di natura culturale, e molto sentiti all’interno del settore. Titus Dittmann, figura di riferimento dello skateboard a livello mondiale, aveva sostenuto che le Olimpiadi avrebbero finito per trasformare questa cultura giovanile in un mero sport competitivo. «I ragazzi si pongono degli obiettivi, come creare un certo trick. E lo fanno solamente per loro stessi, non per papà, mamma o l’allenatore. E quando riescono a padroneggiare quel trick provano un’incredibile euforia, che ha un effetto positivo sulla loro autostima. All’improvviso invece si tratterà di essere semplicemente meglio di qualcun altro». Altre importante personalità – tra cui Tony Hawk, uno degli skater più famoso al mondo – avevano invece sottolineato come la presenza dello skate alle Olimpiadi avrebbe ulteriormente favorito la diffusione di questa pratica nel mondo, ricordando però che in circostanze del genere non si potrà pretendere di avere il clima tipico dei festival e delle competizioni non istituzionalizzate.