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"Fly Me to the Moon" e la satira della cospirazione

Scarlett Johansson e Channing Tatum sono i protagonisti della commedia romantica tra NASA e pubblicità

Fly Me to the Moon e la satira della cospirazione  Scarlett Johansson e Channing Tatum sono i protagonisti della commedia romantica tra NASA e pubblicità

Dicono che i social abbiano alterato la realtà, eppure al cinema è arrivato un film dove a mistificare ciò che riteniamo vero sono persone del tutto lontane dal famoso e temuto “black mirror”. Lo strumento che utilizza Fly Me to the Moon – Le due facce della luna, rom-com con Scarlett Johansson e Channing Tatum, è la pubblicità. Un’arte, a suo modo, camaleontica e mutevole, la quale ha dimostrato nel corso dei decenni di sapersi adattare ogni volta ai nuovi media proposti dall’avanzamento tecnologico. C’è stato poi un tempo, nel 1969, in cui a dover diventare merce è stato uno degli eventi più sconvolgenti del corso dell’umanità. Momento storico rivisitato nel film diretto da Greg Berlanti – subentrato in sostituzione del regista Jason Stateman, come accaduto anche per il cambio d’attore Chris Evans/Channing Tatum – e partito dagli spunti delle teorie cospirazionistiche attorno all’allunaggio dell’Apollo 11. Sebbene la pellicola concentri una buona parte della narrazione sulle intenzioni della Casa Bianca di allestire un finto atterraggio sulla luna in caso di fallimento della vera missione, è il personaggio della protagonista Kelly Jones e la sua attività feroce e vitale nei territori terrestri del marketing a conquistare. 

Dal passato torbido e alla continua riproposta di nuove idee e identità con cui abbinarsi ad ogni potenziale cliente, Kelly possiede la dote innata della venditrice. Non utilizza soltanto un’impeccabile dialettica, ma mette a segno le più acute strategie per incrementare la domanda e l’offerta, tanto da diventare la persona ideale a cui rivolgersi sia per quanto riguarda il risanare l’immagine della NASA (così da giustificare i continui soldi spesi e le speranze che un intero paese ha investito nel più grande dei sogni americani), sia per mettere in scena una possibile versione alternativa - e cinematografica - dell’allunaggio. Pur dovendo fare a meno di Stanley Kubrick, in un ironico riferimento culturale che vorrebbe il regista di 2001: Odissea nello spazio come l’autentico autore del filmato che ha determinato “un piccolo passo per l’uomo e un grande passo per l’umanità”.

E mentre il futuro guarda già a come poter creare spazi pubblicitari sulla luna, Fly Me to the Moon ripercorre con tono irriverente e sfrontato, sempre con un sottofondo brillante-romantico e una manciata di finzione, la genesi di un marchio che non avremmo più rilegato soltanto all’agenzia governativa all’indirizzo 300 E St SW di Washington DC, mescolando pagine di cinema e di storia, stilando un trattato su cos’è la pubblicità e quali sono i nervi su cui lavora. In una versione smaliziata e frizzante del più serioso e impostato Don Draper di Mad Men, la Kelly di Scarlett Johansson spiega ben presto che il modo per rendere vivo l’interesse nella popolazione nei confronti della NASA e del suo operato è di tramutarla in un marchio riconoscibile, accessibile e, soprattutto, spendibile in qualsiasi sua forma o veste.  Gli astronauti mangiano? Lo facciamo anche noi. Allora perché non mettere le loro facce sui cartoni dei cereali a colazione, il pasto più importante della giornata. Nello spazio il tempo è relativo? Giustissimo, ma sempre meglio avere a portata di mano un orologio, non sia mai si riesca a rientrare a casa per l’ora di cena. Che poi è proprio dallo spazio che arriva uno dei più recenti lavori di product placement cinematografici: l’Hamilton Watch del protagonista di Matthew McConaughey in Interstellar di Christopher Nolan, oggetto simbolico del legame tra padre e figlia, oltre che eccellente maniera di inglobare la pubblicità in un’opera.

 

@guywithamoviecamera my first words would be: “moon good ” go see #FlyMeToTheMoon in theaters now @flymetothemoon #scarlettjohansson #sonypicspartner Fly Me To The Moon - 2008 Remastered - Frank Sinatra

Ed è esattamente questo che proverà a fare la protagonista del film di Berlanti: tramutare il logo della NASA in una firma distinguibile ovunque, di cui ognuno vuole appropriarsi, o averne almeno un pezzetto. Ma non è la sola oggettistica a fare di un nome un’intera mitologia. Creando un tessuto di relazioni con clienti e pubblico, Kelly imbastisce interviste, organizza comparsate tv, sa perfettamente quali spot occupare nei notiziari della sera. Come quando oggi gli influencer programmano i post negli orari migliori in cui sembra esserci maggiore affluenza sui social. Salta infatti immediatamente alla mente un’assonanza molto forte tra mondo immateriale della rete e palcoscenico su cui la protagonista prova a operare, mostrando come la costruzione del sé, personale o materiale, sia un concetto del tutto scollegato dalla mera questione storica o generazionale, di cui tanto si parla e che stiamo vivendo tutt’ora. E che per illudere gli altri non è necessario qualche filtro coprente o studiare la posa più adatta per le foto da condividere su Instagram, bensì veicolare una percezione specifica verso chi si vuole ingannare, che sia per far credere di essere qualcun altro o vendere semplicemente una storia. 

È per questo che, seppur completamente distanti e entrambi ottimi, c’è un altro film recente che proprio con Fly Me to the Moon presenta un pattern di affinità elettive. Nel film di Richard Linklater Hit Man – Killer Per Caso il protagonista interpretato da Glen Powell - co-sceneggiatore insieme al regista di Prima dell’alba - è un professore di filosofia qualunque che viene assoldato come finto cecchino dalla polizia per incontrare chi vorrebbe assumerlo e fermare potenziali omicidi. Conoscendo bene le nozioni di Es, Io e Super Io, l’uomo decide di costruire personaggi ad hoc per ogni persona in cui dovrà imbattersi, così da far ritenere loro di essere l’assassino giusto e inducendoli a credere che è la persona che stavano cercando. Le regole del gioco delle personalità, alla base tanto di Fly Me to the Moon che di Hit Man, hanno come finalità il ragionare su che tipo di individuo ognuno desidera essere. Ma mostra anche quanto sia facile, se ben preparati, ingannare o confutare l’idea che può avere l’altro, convincendolo con pochi trucchi e lasciando che sia uno storytelling dettagliato e un aspetto particolarmente verosimile a infondere fiducia.

La macchinazione di una narrazione, dunque, perché sia intrigante e vendibile deve avere un background in cui la gente possa indagare, protagonisti a cui potersi affezionare, un obiettivo che sembri più immenso del cosmo stesso, che diventa nel film con Johansson e Tatum un sentimento di tifo irrefrenabile mentre si indossa la maglietta col marchio NASA. Tutti dovevano voler diventare astronauti dopo il lavoro di Kelly, e chi aveva paura dello spazio doveva come minimo sperare di diventare loro amico. E questo perché, semplicemente, lo aveva deciso qualcun altro. Dalle atmosfere retrò e un tocco leggero che sostiene il continuo spalleggiarsi tra storia di stelle e storia d’amore, Fly Me to the Moon anticipa l’advertising sfrenato che i grandi brand vorrebbero accendere tra pianeti e mostra che, effettivamente, ogni cosa è (purtroppo?) commerciabile. Che sia la luna o la propria identità. Non certo il più genuino dei messaggi, ma il più veritiero (e, comunque, la protagonista imparerà una lezione di tipo morale alla fine del film). Impossibile non pensarci, soprattutto quando da adesso in poi vedremo in giro t-shirt, penne, astucci, locandine, cover del telefono e bag col logo NASA, comprate magari dal loro sito di merchandising ufficiale.