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Cinque film per raccontare l'arrivo a Hollywood di Yorgos Lanthimos

Da Dogtooth a Kinds of Kindness

Cinque film per raccontare l'arrivo a Hollywood di Yorgos Lanthimos Da Dogtooth a Kinds of Kindness

Con Kinds of Kindness, il regista e sceneggiatore greco Yorgos Lanthimos torna alle origini. Abbandona la popolarità di Povere creature!, opera che gli ha valso il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2023 e che ha portato la sua musa Emma Stone alla seconda statuetta degli Oscar, per riabbracciare un cinema che lo chiama dal passato e che da quest’ultimo ritorna. La ragione è semplice: il ri-incontro tra l’autore e Efthymis Filippou, sceneggiatore fidato con cui Lanthimos ha mosso i primi passi, portando sullo schermo i film che, uno dopo l’altro, lo avrebbero aperto alla notorietà.  Sebbene in pochi sappiano, forse, che la carriera del regista è cominciata con un’improbabile commedia del 2001 intitolata O kalyteros mou filos - dal greco, Il mio migliore amico - è con Kinetta del 2005 che ha iniziato la sua scalata, scrivendo al fianco di Yorgos Kakanakis e aspettando quattro anni per avviare il sodalizio con Filippou, per il debutto dello sceneggiatore con Dogtooth. La magia - o pazzia, direbbero alcuni - era fatta. Nella coincidenza di un surrealismo estatico e immobile, dove la fissità si ripercuote nel testo, nella recitazione, nella regia e nelle relazioni dei personaggi, dall’incontro tra le due menti indecifrabili nasce un cinema che si ama e che si odia. E che a volte si ama odiare e altre si odia amare. 

Cinque film, fino al trittico Kinds of Kindness, per delineare la visione artistica ed espressiva di due artisti che hanno portato la Grecia fin sulle vette di Hollywood. Un compendio per inquadrare la poetica del duo e fare un po’ di luce anche su Efthymis Filippou. Sceneggiatore che, mentre vede il compare brillare anche con pellicole non scritte insieme - La favorita e, appunto, Povere creature!, sceneggiate con un altro geniaccio come Tony McNamara - meriterebbe di venir riconosciuto anche per un gioiellino di scrittura quale Miserere, opera del 2018 del regista Babis Makridis su un uomo dipendente dal bisogno di tristezza. Ma questa è tutta un’altra storia. 

Dogtooth (2009)

È il 2009 e Yorgos Lanthimos arriva al festival di Cannes. Non solo arriva, ma vince il premio per la miglior opera della sezione Un certain regard. Il suo film è un mondo, uno dei tanti che costruirà nel corso della carriera. Il micro-universo di Dogtooth, co-scritto con la penna metafisica di Filippou, è il perimetro di una casa, il recinto di una famiglia, una piccola prigione in cui i membri stessi non sanno di essere confinati (almeno non tutti) e in cui sono rinchiusi sottostando a regole e imperativi che non corrispondono alle regole e agli imperativi del resto della società. Madre, padre, figlie e figlio sono i soli appartenenti di una comunità tutta loro e, essendo una giurisdizione a parte, i membri agiscono di conseguenza. Per dettare ogni criterio servono le parole giuste e le parole giuste sono quelle che sono al centro di una storia in cui i co-sceneggiatori creano un universo totalmente a parte. Dove acqua, cibo, festa, danza, scarpe, denti non corrispondono all’acqua, al cibo, alla festa, alla danza, alle scarpe e ai denti a cui si riferiscono gli altri. Dogtooth stabilisce un proprio dizionario e così anche gli autori, per un film che li avrebbe imposti con fermezza nel panorama cinematografico. I personaggi usano un loro vocabolario che, a suo modo, è lo stesso che Lanthimos e Filippou utilizzano per descrivere il loro cinema. Un film che è un’attestazione programmatica, una visione autoriale da appendere alla parete. 

Alps (2011)

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Quasi tredici anni di distanza, ma tra tutti i lavori della filmografia di Lanthimos, non a caso sempre in combo con Efthymis Filippou, Alps è l’opera che più comunica con Kind of Kindness, in particolare col secondo episodio del film diviso in capitoli. La sostituzione, l’altro da sé, il riempimento di un vuoto con qualcosa di irreale sono i fili che connettono le pellicole e che hanno mostrato nel 2011 con Alps quanto tutti i personaggi nei film del regista greco non siano altro che delle maschere. Ruoli che, spesso, le persone si auto-assegnano, o che quando vengono imposti dall’alto hanno sempre un compito da svolgere.  In Alps quattro persone hanno messo su una società per sostituire chi è venuto a mancare e che i loro cari vogliono ancora avere vicino. Un mestiere di immedesimazione - che, anche qui, comunica col famoso corto di Lanthimos Nimic, neologismo che unisce proprio la mimesi dei gesti altrui e la mania (“maniac”). Il linguaggio è la forma più pura e immediata della mimesis, è diventare personaggi (o persone vere, poco importa) perdendo ciò che c’era di se stessi. Per questo, sul finale, la protagonista sarà incapace di ritrovarsi, quasi di riconoscersi, essendo rimasta incastrata per troppo tempo nella parte di qualcun altro, tanto da aver dimenticato chi è veramente.

The Lobster (2015)

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Se il linguaggio è un tema portante nella filmografia di Yorgos Lanthimos lo è anche nel momento in cui si declina in quello dell’amore, che ha canoni ed espressioni tutti suoi, soprattutto quando, come nel caso dell’opera con Colin Farrell e Rachel Weisz, cerca di sopperire ad un’altra grande questione dell’essere umano: la solitudine. In un eccentrico hotel dove tutto è inamovibile e codificato, gli ospiti hanno un tempo limitato per trovare la propria anima gemella prima di diventare degli animali. Siamo in un futuro distopico, dove è proibito rimanere single e si è costretti a cercare la persona con cui passare la propria vita in quarantacinque giorni. Fare in modo di trovarla è l’unica cosa che li salverà - in entrambi i casi, da un certo punto di vista, sia se trovassero l’amore che se smettessero finalmente di rincorrerlo. Silente e squilibrato, il rapporto tra i protagonisti di The Lobster è disfunzionale anche quando finalmente scatta la scintilla. Proprio come capita tra le opere di Lanthimos/Filippou e il pubblico. La tensione di morte, declinata nella formula “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” (in questo caso persone umane in variante animale) è contrapposta ad un eros che mette in continua soggezione i personaggi (dall’impossibilità della masturbazione all’eccitazione bruscamente smorzata) e che rende ancora più straniante il domani immaginato dal duo. È strambo, è stravagante, a volte è anche sovversivo. È un ottimo esempio di come la loro scrittura funziona procedendo per opposti e frizioni.

Il sacrificio del cervo sacro (2017)

Pur essendosi già aperto allo star system hollywoodiano col precedente The Lobster, con Il sacrificio del cervo sacro Yorgos Lanthimos ci affonda le mani completamente, facendo una doppia operazione tra la conferma di grandi volti che vogliono lavorare col regista (Nicole Kidman) e la scoperta di nuove stelle come Barry Keoghan (seppur già con dodici film, però meno conosciuti, alle spalle). Efthymis Filippou e il suo regista traggono ispirazione dalle proprie radici, dalla cultura della propria terra che ha dato il via alla mitologia greca e che la coppia ha preso, stravolto, modificando, generandone una propria. Il sacrificio del cervo sacro è la rivisitazione dell’Ifigenia in Aulide, è un gioco perverso fatto di dinamiche familiari e rapporti di potere (tornando, così, a Dogtooth). È la commistione tra il fastidio epidermico che il cinema di Lanthimos sa generare e il suo patinarlo solo per scavare ancora di più nell’abisso dell’umano. La famiglia Murphy comincia ad andare a pezzi e solo un atto di fede - che spesso corrisponde a un atto di follia - può forse salvarli. Il linguaggio (ancora una volta lui) della classicità entra in contrasto con la modernità per dare vita a nuove leggende e, quindi, mostri. Iniziando anche a far storcere il naso per i due autori così provocatori e antitetici, portatori di un cinema non per forza aperto o disponibile verso il pubblico.

Kinds of Kindness (2024)

Yorgos Lanthimos è stato per un po’ solo (quasi), ha esplorato le strade dell’industria hollywoodiana (La favorita e Povere creature!), perdendosi nella possibilità di ideare un cinema che fosse comunque eccessivo, rumoroso e contorto, seppur più accessibile e stuzzicante per il largo pubblico. Per farlo ha avuto accanto Tony McNamara, squilibrato quanto basta, più dissacrante che metafisico, ma pur sempre eccitante nell’opportunità di stendere racconti famelici e destabilizzanti. Ma dopo le avventure di Bella Baxter, tornare alle basi è forse l’unica mossa sensata da fare, la svolta giusta per ricordarci chi Yorgos Lanthimos è e con chi, in qualche modo, avremo sempre a che fare.

Kinds of Kindness, con cui si ritrova assieme a Efthymis Filippou dopo sette anni, è la composizione di tre mediometraggi che parlano tra di loro e rimettono in piedi le metafore chiuse, ma non per questo totalmente inaccessibili della coppia di sceneggiatori. Ci sono i sottotesti e i sottotesti dei sottotesti. Ci sono gli stessi attori che interpretano più personaggi - con Jesse Plemons che vince la migliore interpretazione maschile a Cannes - e un ritorno al senso di soggezione che le opere precedenti di Lanthimos facevano provare. La confusione è solo una finzione, perché regista e sceneggiatore hanno tutto sotto controllo. Ed è proprio l’amore come autorità che gestisce e regola le relazioni ciò di cui trattano gli episodi di Kinds of Kindness. Storie di gente (non) comune e sentimenti unici, come la combinazione da sempre bizzarra e umanissima della visione dei due autori.