Eric e la profondità dell'anima umana
La nuova miniserie Netflix che centra il segno senza seconde stagioni
05 Giugno 2024
Non tutti avranno visto If, film di John Krasinski che si cimenta col genere del family movie in tecnica mista, dopo aver affermato il suo status di regista con l’horror “muto” A Quiet Place del 2018 (e con il sequel uscito un paio di anni dopo). A poche settimane di distanza dall'uscita del film, che narra la storia di una ragazzina e del suo vicino (Ryan Reynolds) che devono trovare nuovi bambini a cui assegnare vecchi amici immaginari prima che svaniscano, Netflix lancia il contraltare di tutte le fantasie dei più piccoli - quelle che però, solitamente, si nascondono sotto al letto - con la miniserie Eric. Con Benedict Cumberbatch, ideata da Abi Morgan e diretta da Lucy Forbes, Eric è il perfetto esempio non solo di come sulla piattaforma streaming esistono prodotti che non devono essere tirati e stirati per otto stagioni, ma anche di come con una buona storia si può assecondare molto di più il piacere del pubblico.
Ambientata in una New York anni Ottanta, in un quartiere che vuole essere ammodo ma che nasconde solamente la sua sporcizia sotto al tappeto, Eric prende il titolo dal burattino/amico immaginario con cui comincia a interagire Vincent (Cumberbatch). Padre che ha perso il proprio figlio Edgar (Ivan Morris), Vincent spera di ritrovarlo portando l'invenzione del piccolo nel suo show per bambini, Good Day Sunshine. Nella serie, Eric è dunque un pupazzo che ha doppio significato. Per Edgar, timido e introverso, è un ponte di comunicazione con l’esterno, poiché stanco delle urla in una casa in cui i genitori non hanno altro modo di parlare se non riversandosi addosso rancore. Per Vincent, invece, il burattino si tramuta nell’unica speranza, a volte folle e squilibrata, per riavvicinarsi a quel figlio che è stato lui stesso il primo ad allontanare. La colpa spinge il protagonista oltre il pudore, oltre la sanità mentale, oltre il cuore, lo rende isolato e solitario, ancora più aggressivo e scostante del solito, mentre investiga campando castelli in aria che hanno le forme e le architetture della sporca Grande Mela. In Eric non c’è solo il racconto della sparizione a contendersi il centro dell’attenzione, e nemmeno la dipendenza da alcol e stupefacenti che inizia ad annebbiare gradualmente la mente del genitore - oltre ad accentuare il suo già suscettibile e arrogante carattere.
La miniserie sceglie una struttura traboccante che regge sorprendentemente bene tutti gli elementi messi in gioco: c'è la storyline del poliziotto che segue il caso, omosessuale afroamericano in un’epoca in cui l’AIDS serpeggiava per le strade; c’è la corruzione nella sua stessa centrale, dove non è troppo sorprendente immaginarsi qualche collega dalla fedina penale sporca; c’è un locale notturno, il Lux, in cui le perversioni della città si incontrano. C'è poi il tema del rapporto genitori-figli, complesso qualsiasi sia il ruolo che ci si trova a coprire (sia tra Edgar e Vincent, ma anche tra Vincent e il padre milionario). E poi c’è la politica, affarista e ipocrita, che vuole le vie di New York pulite e i senzatetto sbattuti in qualche cassonetto, il più lontano possibile dai quartieri perbene. Ed è proprio sul “perbene” che verte Eric, tra perbenismo, arrivismo e opportunismo. Mentre Vincent sprofonda in una spirale di pazzia, alimentata dai fiumi della bottiglia e in preda a una fervida psicosi che fa tornare a galla demoni del passato, la storia attorno è come una mappa su cui lo spettatore deve cercare di aggirarsi, stando dietro a quante più svolte il racconto è pronto a dare. È poi ovvio che ogni percorso è destinato a fondersi, per poi tornare al punto centrale: la ricerca di Edgar. Su questa rete di connessioni la miniserie si muove come un’equilibrista, e colpisce nel riuscire a saper mantenere un occhio lucido su tutto. Nulla si perde, niente viene lasciato indietro. Si vuole andare a fondo nel quadro più grande di fronte a cui la creatrice Morgan ha voluto condurre l’osservatore, facendo uscire i mostri dall’armadio e chiedendo al pubblico di seguirli, fino nelle fogne.
Non un lavoro che ricorderemo come il più entusiasmante del 2024, né raffinato come Ripley o scioccante come Baby Reindeer, Eric è però l'ulteriore esempio di come, invece che puntare a mire espansionistiche di serialità, il formato breve riesce a centrare il segno. A focalizzarsi su una narrazione senza che nessuna pista rimanga aperta, pur piena di input e suggestioni – né la sparizione del bambino, né il destino del poliziotto che crede ancora nell’etica del proprio lavoro, né tantomeno i micro-cosmi che Vincent ha visto vorticare attorno alla sua esistenza, privata e lavorativa, mentre cadeva a pezzi. Non facendo, insomma, di una seconda e spesso obsoleta stagione la soluzione necessaria. Con la sua miniserie, Abi Morgan mostra come il deterioramento del proprio “io” sia il primo passo per far crollare la vita che si è sforzati di costruirsi, perdendo la bussola in una città che non lascia scampo, ma che di racconti ne ha da offrire, anche di torbidi e complicati, e con cui è possibile parlare ad un pubblico ampio. Perché se è vero che il motto del Good Day Sunshine di Vincent è «Sii gentile, sii coraggioso, sii diverso», a volte «sii semplice, ma efficace» può essere un consiglio altrettanto convincente.