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Megalopolis e la società contemporanea secondo Coppola

Il regista torna a parlare del Sogno Americano, ma non come ci aspettavamo

Megalopolis e la società contemporanea secondo Coppola Il regista torna a parlare del Sogno Americano, ma non come ci aspettavamo

Francis Ford Coppola è il più grande regista della storia del cinema? La classica domanda a cui nessuno vorrebbe cercare di rispondere seriamente. La filmografia del regista comunque parla chiaro: Il Padrino Parte 1, Il Padrino Parte 2, Apocalypse Now. Tre titoli che potrebbero stare senza colpo ferire sul podio di una qualsiasi classifica dei migliori film di sempre. Per non parlare di lavori come La Conversazione o Dracula di Bram Stoker. Insomma, Coppola è un nome con un certo tipo di peso nella settima arte. Ed è per questo che l’annuncio della realizzazione di Megalopolis, un nuovo (forse, un ultimo) film di un autore di questa portata, avrebbe a prescindere generato un vortice di interesse e speculazioni. Ma a questo si sono aggiunte le indiscrezioni sulla natura del progetto. Un’idea nata oltre quarant’anni fa, portata avanti nei decenni senza mai trovare produttori disposti a investire le risorse necessarie per la sua realizzazione. Questo fino alla drastica decisione: l’autofinanziamento. Più di 120 milioni di dollari provenienti da risorse personali e dalla vendita di alcuni vigneti in California. L’ultimo gesto ribelle dell’anarchico divenuto tycoon, con l’obiettivo di lasciarci un testamento artistico e il suo ennesimo sguardo sugli Stati Uniti. Proprio su quest’ultimo tema, Megalopolis acquista d’interesse. Non perché sia un grande film. Ad essere sinceri si tratta di un’opera irricevibile, sia a livello qualitativo che di grammatica cinematografica. Ma è una grande storia, che porta con sé due chiavi di lettura sulla società e sul sistema americano. Quella narrativa, data dalla visione del suo autore, e quella legata alla natura del progetto stesso. Due livelli in grado di intrecciarsi e confondersi.

Partiamo dal lato filmico: Megalopolis è ambientato in un periodo non meglio precisato a New Rome. Una città che vive a metà tra la Roma imperiale e una New York dei giorni nostri ma con forti richiami a quella degli anni ‘30 del secolo scorso. In questo contesto da fine Impero si muovono i personaggi principali: Cesar Catilina (Adam Driver), un architetto con il potere non ben specificato di fermare il tempo che vorrebbe ripensare la città attraverso il Megalon, un bio-materiale da lui creato; il suo antagonista, il sindaco Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito) e sua figlia Julia (Nathalie Emmanuel), che finirà per innamorarsi del nemico del padre; infine Wow Platinum (Audrey Plaza), ex giornalista che, ferita sentimentalmente da Catilina, sposa suo zio, il milionario Hamilton Crassus III (Jon Voight) e trama vendetta assieme a Clodio Pulcher (Shia LaBeouf). Già da questa breve trama emerge che il parallelismo tra la fine dell’impero romano e quello americano è oltre il didascalico.

Sono anni che si cerca di sposare la narrazione di un’America in crisi, anche andando oltre il vero, e anche se il cinema ha di recente messo in luce le criticità e le crepe dell’American Dream, Coppola va oltre, si  sostituisce meta-narrativamente al protagonista - del resto, chi è in grado di piegare il tempo meglio di un regista? - vittima di un un mondo che non riconosce più. Così emerge una visione critica di una società schizofrenica, schiava del cambiamento ma inadatta a un ulteriore progresso. Il regista ne ha per tutti. C’è lo spazio dedicato alle fake news e alla post-verità; così come alla cancel culture e ai dibattiti sul concetto di wokeness; e non mancano sottotesti pesanti nei confronti del ruolo delle donne. Coppola non si risparmia neanche nei confronti degli apparati politici, attraverso il personaggio di Shia LaBeouf che  decide di fondare un proprio movimento di stampo trumpista-populista (con tanto di cappellini rossi), a cui il regista associa simbolicamente una svastica e intervalla, in una certa scena, dei frame di discorsi di Hitler e Mussolini. C’è tutto e non c’è niente in Megalopolis: banalizzando, si potrebbe dire che questa è la vera metafora dell’America che Coppola voleva fare, anche se spesso l’impressione è invece quella di trovarsi davanti a un lungo sfogo carico di disprezzo nei confronti del mondo intero. Come dicevamo, esiste tutta un’altra America in questo grande racconto. Megalopolis è un film che poteva essere solo ed esclusivamente statunitense, un sogno di un unico uomo che dà alla luce un maxi-progetto pluridecennale, in cui sono coinvolti alcuni dei massimi esponenti del settore e che diventa concretamente realtà riuscendo a guadagnarsi un posto al centro del mondo arrivando sulla bocca di tutti. Il motivo per cui non possiamo davvero odiare Megalopolis è tutto qua, nella storia più vecchia e romantica del mondo: il singolo individuo che si staglia imperterrito contro l’intero sistema. 

@apnewsentertainment Francis Ford Coppola's self-financed “Megalopolis” is a passion project that the 85-year-old director has been pondering for decades. Looking back while speaking at Cannes, the filmmaker says has no regrets. #francisfordcoppola #megalopis #cannesfilmfestival original sound - AP Entertainment

Andando però oltre alla retorica, possiamo imparare qualcosa in più. Megalopolis è figlio di una ricchezza personale spropositata, nata dallo stesso sistema contro cui tutti quanti stiamo tifando e non da un uomo venuto dal nulla. Proprio il nome che il progetto si porta con sé è talmente grande e importante che, la sola menzione, è in grado di spalancare possibilità che vanno oltre la qualità effettiva del progetto. Un esempio? Con ogni probabilità, se Megalopolis fosse stato diretto da un altro regista, non avrebbe mai avuto accesso al Concorso del Festival di Cannes e neanche molte delle recensioni positive ricevute. Per non parlare poi del risultato finale, che diventa un perfetto esempio dell’importanza che ha un sistema stratificato come quello dell’industria cinematografica quando si tratta di film di queste dimensioni. Forse è proprio questo il grande racconto di Megalopolis, una storia in cui il macro incontra il micro, azzerando le semplificazioni come quelle legate al sogno americano e sbattendoci in faccia un unico concetto: il mondo reale è infinitamente complesso.