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L'anticapitalismo è ancora di moda?

Ironia per un mondo che ha finito lo humor

L'anticapitalismo è ancora di moda? Ironia per un mondo che ha finito lo humor

Iniziamo da relativamente lontano. Due settimane fa i jeans di Jordanluca macchiati ad arte per simulare gli effetti dell’incontinenza sono diventati virali, portando un aumento di traffico sul sito del brand del +1000%. Contattati da Vogue, i due designer hanno però chiarito che i jeans non saranno prodotti ulteriormente perché «i jeans sono un commento sul fatto che non abbiamo bisogno di più vestiti, ma abbiamo una relazione d'amore ossessiva con le cose. Il consumismo è un feticcio osceno. Compriamo le cose non perché ne abbiamo bisogno, ma perché ci eccitano emotivamente». E la decisione di non produrre ulteriori jeans è stata motivata dalla volontà di non prendere parte alla «spirale di consumismo virale» che sarebbe poi la flagrante contraddizione di criticare il capitalismo alimentandolo – una contraddizione su cui si discute già da tempo con riferimento a Demna che ha fondato la nuova estetica di Balenciaga proprio sull’ironia anti-capitalista. Ma l’ironia anti-capitalista di Jordanluca e il suo “archetipo”, quella di Demna, che hanno numerosi precedenti nella storia della moda, devono rivaleggiare oggi con una diversa atmosfera storica, un diverso tipo di disillusione sociale e soprattutto un certo “vuoto” morale e identitario della moda che ha portato l’intera società molto al di là dell’ironia, in un luogo dove non c’è molto da ridere. Nello specifico, quel luogo è stato, la scorsa settimana, il red carpet del Met Gala dove, a fare da sfondo a questa processione di spreco, stravaganza e ricchezza, c’erano sia le proteste pro-Palestina bloccate soltanto da un cordone di polizia e una serie di transenne metalliche a un isolato di distanza; che quelle, evitate a malapena, dei dipendenti della stessa Condè Nast in sciopero, accontentati delle loro richieste pur di tenere le strade sgombre. 

Dov’era l’ironia? Nel fatto che il tema del Met Gala stesso era ripreso da The Garden of Time, racconto di James Graham Ballard che parla precisamente di due aristocratici segregati nel loro giardino che provano a sfuggire l’arrivo di una folla cenciosa e inferocita che si dirige verso di loro con intenzioni non proprio buonissime. Un tocco molto meta-narrativo per un evento che alla fine, come racconta Vanessa Friedman al New York Times, si è svolto senza particolari problemi (il The Guardian dice che la folla è stata fermata a un isolato di distanza) lasciando il conflitto di toni solo sul piano potenziale e metaforico. Non di meno, il fatto che questa pace e questa serenità siano state così prossime allo scadere nell’imbarazzo come capitato in parte agli ospiti della cena dell’Associazione dei corrispondenti della Casa Bianca è indizio di un clima magari non triste ma non abbastanza disteso per lasciare spazio a qualunque ironia. Il che era vero anche per i brand di lusso coinvolti che quest’anno più che negli altri hanno insistito sulla creazione di questi abiti, sull’artigianalità e sulla difficoltà tecnica della loro produzione e dunque sulla loro assoluta serietà – la moda non è spreco di denaro se ne riconosciamo lo status artistico o il pregio materiale. La dimostrazione di questi ultimi due fattori è parsa fissa nella mente dei brand dentro e fuori dal Met Gala, dato che i feed social sono invasi da video close-up in cui si esalta l’abilità manuale degli artigiani (sempre presenti come mani scorporate prive di volto o identità), in cui la stampa viene portata a fare tour delle fabbriche in Toscana o in Umbria e in cui le show notes di molti show diventano elenchi di lavorazioni o finissaggi. 

Se dovessimo parlare di ironia nel vestire, in effetti, la dovremmo andare a cercare nei bassifondi di Vinted dove il nuovo trend è andare a cercare le più banali tra le barzellette e i giochi di parole per comprare magliette che si fanno notare proprio per il loro essere vagamente cringe. Fuck Me I'm Famous e FBI: Female Body Inspector sono tra i primi esempi che vengono in mente. Ma si tratta comunque di un’ironia distante anni luce da quella di Vetements o Balenciaga – e non è un caso che il gimmick di Jordanluca, pur avendo successo e portando al sold-out dei cosiddetti “pee jeans” sia stato criticato da una larga fetta di pubblico che non ha creduto all’artisticità del prodotto. Non di meno, c’è della verità nella dichiarazione dei due designer sull’acquistare abiti che ci «eccitano emotivamente», tanto che spesso anche in sede di acquisto, e specialmente in tempi di noioso quiet luxury che trasforma molte boutique in una sinfonia di beige chiari e pallidi azzurri, è l’abito scioccante e sorprendente a essere notato prima, provato poi e infine acquistato se tutto va bene. Secondo l’articolo di Vogue in cui i designer di Jordanluca sono intervenuti, tra l’altro, subentra anche il fenomeno del cost signalling, ovvero il senso di superiorità che deriva dall’indossare qualcosa di notevolmente brutto dimostrando o di avere i soldi da buttare o di avere capito una battuta che a molti altri non è arrivata. Dopo tutto, se il cattivo gusto si distingue già da solo, il gusto per l’oltraggioso può facilmente passare per sofisticazione artistica.

Ma, come si diceva prima, la cultura collettiva al momento pensa ad altro, muovendosi verso una nozione più letterale del pregio dei prodotti e allontanandosi dall’idea che la moda sia una specie di patina da applicare a oggetti estremamente semplici o estremamente strani. Però, come ha scritto Imran Amed in un op-ed su BoF, l’idea del value-for-price sta guadagnando sempre maggior terreno nella clientela della moda, anche la meno “informata”, specialmente ora che il gran numero di piattaforme di resell, come Vinted, Vestiaire Collective e The RealReal, danno un’idea della facilità con cui il lusso perda valore appena uscito dal negozio. Allo stesso tempo, la nostra abitudine a questo tipo di moda ironica le ha fatto perdere mordente: per ogni fan dei jeans di Jordanluca ci sono stati due o tre detrattori e questo senza parlare del fatto che un identico concept di prodotto (jeans con una macchia sull’inguine) era stato già prodotto dalla designer Di Petsa nel 2019, dimostrando la relativa limitatezza e creatività di questi gimmick che, per l’appunto, finiscono per ripetersi o appiattirsi intorno a uno slogan. Se dobbiamo dare ragione al massimo esperto di questo tipo di umorismo, e cioè Demna, che ha affrontato questo punto nella video-intervista Rethinking Heritage, alla contraddizione non c’è una risposta univoca:

«È una questione conflittuale per me. Non so ancora come affrontarla. A volte mi fa arrabbiare, a volte me ne dimentico e seguo il flusso perché ci sono cose che non posso cambiare. C’est la vie […] Ho una specie di rapporto amore-odio con il concetto generale di moda […] Mi fa rabbia quando sento di persone che conoscono il mio lavoro, che l’hanno seguito per anni e amano ciò che faccio ma non possono comprarlo. […] È come camminare sul filo di un rasoio».