Cosa sono i “fake artist” di Spotify
E quali problemi pongono al mercato discografico
04 Aprile 2024
Spesso le canzoni presenti nelle playlist di Spotify per accompagnare un determinato stato d’animo non nascono dalla volontà dei singoli artisti, ma sono prodotte su richiesta della stessa piattaforma, che ha all’attivo accordi di collaborazione con numerosi musicisti per realizzare pezzi da proporre come sottofondo musicale. Si tratta delle cosiddette “canzoni d’atmosfera”, e sono pensate per essere ascoltate mentre si è impegnati in altre attività – non a caso sono quasi sempre esclusivamente strumentali. Secondo la stampa di settore, però, questa pratica rappresenterebbe una forma di concorrenza sleale nei confronti dei gruppi emergenti. Di recente è stata svelata l’identità di un musicista svedese che pubblica canzoni sulla piattaforma in collaborazione con Spotify e che rientra quindi tra coloro che vengono definiti come “fake artist”. Il musicista utilizza più di 650 pseudonimi diversi (tra cui Röhr), e in totale avrebbe pubblicato oltre 2500 canzoni sulla piattaforma. I brani hanno ottenuto complessivamente più di 15 miliardi di ascolti, rendendolo di fatto tra i 100 musicisti più ascoltati sull'app – paradossalmente superando artisti come Britney Spears o Michael Jackson. Le sue canzoni sarebbero state aggiunte a più di un centinaio di playlist, seguite in tutto da oltre 60 milioni di follower. Röhr ha composto 41 delle 270 canzoni che compongono la playlist d’atmosfera di Spotify “Stress Relief”, pensata per calmare la «mente dall’ansia grazie alle note di un pianoforte e alla musica ambient».
I "fake artist" limitano il settore?
A livello globale, lo streaming rappresenta da circa dieci anni la principale modalità di fruizione della musica; nel 2023 – in cui il numero di persone abbonate ad almeno una piattaforma di streaming ha superato i 500 milioni – le entrate complessive di questo settore sono aumentate del 10% rispetto all’anno precedente, raggiungendo un valore di mercato pari a 19 miliardi di dollari. Il successo dei cosiddetti "fake artist", però, è considerato in un certo senso “artificiale”: le loro canzoni vengono appositamente inserite all’interno delle playlist generate da Spotify, pensate proprio per raggiungere il maggior numero di utenti sfruttando un algoritmo. Qualche anno fa la testata di Stoccolma Dagens Nyheter aveva rivelato che i pezzi attribuiti a più di 500 musicisti presenti nelle playlist di Spotify erano in realtà di sole venti persone, tutte legate alla casa discografica svedese Firefly Entertainment. Secondo quanto sostiene la rivista Music Business Worldwide, già a partire dal 2016 Spotify avrebbe stipulato degli accordi di collaborazione con le case discografiche che hanno sotto contratto questi "fake artist", cosa che permetterebbe all’azienda svedese di pagare delle royalties più convenienti rispetto a quelle che generalmente spettano ai musicisti rappresentati dalle major. Di conseguenza, fare in modo che le canzoni realizzate dai "fake artist" siano sempre più ascoltate avvantaggia molto Spotify.
Quanto si guadagna con lo streaming?
@dritzbitz Replying to @shlooomth no disrespect to the artists behind this music! Takes talent to crank this stuff out #spotify #jazz original sound - dritzbitz
Non è chiaro quanto i "fake artist" riescano a guadagnare grazie alla collaborazione con Spotify. Nel 2022, l’etichetta discografica di Röhr, Overtone Studios, avrebbe fatturato circa 3 milioni di euro grazie alle sole royalties di Spotify. Parlando con il Guardian, un portavoce di Spotify ha dichiarato che la piattaforma deve investire sulla musica prodotta da persone come Röhr per soddisfare la domanda degli utenti, che sono sempre più interessati ad ascoltare canzoni per rilassarsi, concentrarsi o studiare. Di conseguenza alcune case discografiche – come anche la svedese Epidemic Sound, a cui sarebbero collegati diversi "fake artist" di Spotify – hanno iniziato a specializzarsi nella produzione di questo tipo di contenuti. Anche se i ricavi derivanti dallo streaming sono in aumento, finora la maggior parte dei musicisti che pubblicano la propria musica sulle piattaforme riceve delle royalties molto basse – in media meno di un terzo di centesimo di dollaro per ogni riproduzione. Tutto questo ha influenzato il mercato musicale: se fino a qualche decina di anni fa gli artisti guadagnavano soprattutto dalla vendita di dischi, oggi dipendono perlopiù dai ricavi derivanti dai live (anche privati) e dalle collaborazioni esterne.