Perché i Caraibi stanno guadagnando grazie alle aziende di AI?
La coincidenza ha l'oro in bocca
04 Febbraio 2024
Nel 1974, l’Organizzazione Internazionale per la Normazione, il più importante istituto a livello globale per la definizione di norme e standard tecnici, assegnò a tutti i Paesi del mondo un codice basato sull’abbreviazione del loro nome, che nei decenni seguenti venne integrato nei nomi dei domini dei siti Internet. Così come quello dell’Italia è .it, quello di un arcipelago dei Caraibi – chiamato Anguilla – è .ai, cosa che negli ultimi anni lo ha reso molto più ambito di altri. In inglese, infatti, rappresenta l’abbreviazione di “intelligenza artificiale”: molte aziende che operano in questo settore, per avere un indirizzo web che comunichi immediatamente cosa fanno, hanno cominciato a registrare i propri siti sul dominio .ai – pagando per ottenerlo. Questa coincidenza ha fatto la fortuna dell’arcipelago di Anguilla, che conta poco più di 15mila abitanti, e la sua economia fino a poco tempo fa dipendeva quasi esclusivamente dal turismo e dalla pesca. Il registro dei domini .ai rappresenta a oggi circa un terzo delle entrate del governo locale, apportando circa 3 milioni di euro al mese al Paese.
Piccoli Paesi, grandi domini
Spesso, domini molto richiesti fanno riferimento a Paesi piccoli e quasi sconosciuti: è il caso di .fm, usato da molti siti di radio o servizi musicali, che appartiene all’arcipelago della Micronesia, nel Pacifico occidentale. Lo stesso vale per il Montenegro, minuscolo Paese dei Balcani, che vendendo domini legati al suo .me ha generato moltissimi introiti. E ancora: il dominio di Twitch si chiude con un .tv, appartenente all’isola di Tuvalu, nel sud del Pacifico. Le isole Chagos, nell’oceano Indiano, invece hanno .io come dominio-collegato, molto sfruttato tra le aziende e le startup tecnologiche in quanto abbreviazione di un termine particolarmente usato nel settore, “input/output”. In quest’ultimo caso, però, non è chiaro chi ottenga i profitti generati: il governo locale sostiene di non ricevere nulla. Lo stesso vale per lo stato insulare di Niue, nel Pacifico meridionale, che non ha mai ricevuto soldi dalle vendite di .nu, causando una perdita di potenziali introiti tra i 27 e i 37 milioni di dollari. Se infatti gran parte dei Paesi hanno ormai assunto il controllo del proprio dominio, per altri non è ancora così.
La storia dei domini su Internet
In passato i domini non erano gestiti direttamente dai governi, ma da singoli amministratori che si facevano carico della cosa: a volte erano accademici o informatici, mentre altre semplicemente le prime persone che si proponevano. Il soggetto che aveva richiesto il controllo negli anni Novanta del dominio .nu, collegato allo stato di Niue, vendette la licenza a un’azienda svedese, che tuttora si rifiuta di cederla al governo dell’isola del Pacifico. Nel caso di Anguilla, invece, la gestione del dominio dell’arcipelago venne inizialmente affidata a un ragazzo californiano, che si era trasferito lì per avviare un’attività di posta elettronica, e che ancora oggi agisce da tramite tra il governo locale e le aziende di intelligenza artificiale interessate ad acquistare il dominio .ai. Vista la scarsa richiesta, fino al 1995 ottenere un dominio era gratuito, ma con la cosiddetta bolla delle dot-com, i domini divennero dei prodotti su cui far soldi. Un numero crescente di persone iniziò ad accorgersi quanto il nome degli indirizzi fosse importante: molti, infatti, iniziarono a investire nel “cybersquatting”, cioè la pratica di acquistare un dominio potenzialmente ambito (magari associato a grandi brand non ancora sbarcati sul web), con l’obiettivo di rivenderlo a cifre più alte. È così che nacque il mercato della compravendita di domini, che ancora oggi rappresenta un pezzo fondamentale dell’economia che ruota intorno a Internet.