Abbiamo smesso di credere agli influencer?
Cos'è il deinfluencing, il movimento che vuole liberarsi del marketing iper-aggressivo
02 Febbraio 2023
L’era degli influencer è finita. L’era degli influencer sta finendo. L’era degli influencer finirà mai? Qualcosa fa pensare di sì. Inutile spiegare chi sono gli influencer. Personalità-cartellone pubblicitario, sono pagati dai brand per spingere i loro prodotti, convincendo il bacino di follower ad acquistare grazie al loro carisma. Prima fautori dei cosiddetti trend, ormai più casse di risonanza che creatori veri e propri. Anche se il regno assoluto degli influencer, dei brand deal e delle storie sponsorizzate è senza dubbio Instagram, adesso i trend nascono su TikTok, e spesso sono “micro” - elaborati cioè dentro una nicchia per il pubblico facente parte della nicchia stessa e, soprattutto, per un arco temporale brevissimo. Non esiste limite merceologico. Si passa dal make up all’editoria, dagli accessori alla cura della casa, senza posa. Ma alcuni di questi creator non vogliono più stare al gioco - ed è per questo che è nato il movimento del “deinfluencing”.
@nidiaries i could talk about this for days #greenscreen #fashion #trends original sound - nidiaries
Nuove spinte anti-consumistiche partono dal campo dell’attivismo globale (basti pensare al Buy Nothing Day, istituito già nel 1995 ma ripescato con nuova forza e convinzione nel 2022) e arrivano sui social network, dove si trasformano in hashtag di enorme seguito come #nobuyyear2023 con 400mila visualizzazioni su TikTok e #anticonsumerism con 3 milioni, mentre #deinfluencing viaggia addirittura sui 50 milioni e non accenna a fermarsi. Vice ha registrato una vena anti-consumistica tutta nuova e tipica della Gen Z nella corrente del cosiddetto CoreCore, a cui ha dedicato spazio anche il Time, una presa di coscienza critica da parte di alcuni utenti secondo cui "il troppo stroppia". Il deinfluencing vuole mettere un freno a questo ciclo senza respiro di trend, micro trend e prodotti virali. Si tratta di un movimento eterogeneo nato spontaneamente e comprende diverse tipologie di contenuti, dalle liste di prodotti da non comprare alla ripetizione in video di motti e inviti a non farsi spingere all’acquisto. Lo scopo è di far riflettere chi guarda sul fenomeno dei trend. Tra le fautrici di questo movimento, anche ex “influenced” giunte all’illuminazione. Elise Maria dice: «Se non eravate lì nel periodo degli beauty youtuber, forse avete bisogno di essere avvertiti: pensateci bene prima di comprare prodotti, soprattutto se hanno una data di scadenza, su raccomandazione di persone che sono pagate per venderveli o a cui sono stati regalati. Magari sono anche sinceri, vi danno una review onesta, ma non si preoccupano assolutamente del costo che questi prodotti hanno per il consumatore. La prossima settimana ce ne sarà un altro, e poi un altro. A queste persone non interessa».
Trust your research, don't trust influencers.
Lauren Morgillo rincara la dose: «Vorrei eliminare TikTok. Mi fa sentire malata. Ho una malattia. Ho 5 terre abbronzanti che sono esattamente dello stesso colore, ho 7 blush, nessuno ha bisogno di 7 blush. Smettiamo di comprare tutto quello che le influencer cercano di venderci». Ancora, l’utente Nidiaries porta avanti sul suo profilo una vera e propria serie divisa in parti e intitolata “Trend che non ho acquistato quest’anno anche se internet ha cercato di convincermi a farlo” in cui spiega quali prodotti ha deciso di non comprare e perché. Nei suoi elenchi si passa dall’elettronica all’abbigliamento senza soluzione di continuità, dagli Ugg Mini alle AirPods Max di Apple, che hanno in comune una cosa sola: l’essere diventati virali. Nel turbine di micro trend da combattere anche i parachute pants, che secondo James Edward non avranno vita lunga. Sulla stessa barca anche gli sports sunglasses Oakley, che sempre secondo Edward affonderanno molto prima dell’estate.
@laurenmorgillo #stitch with @eliseeatsplants like pls get help before you end up like me #deinfluencing original sound - LaurenMorgillo
Il movimento non ha nessun tipo di programma specifico, ma nella sua volatilità riesce comunque a far riflettere sulla tendenza generale all’overcompsuntion, sotto una luce nuova, spogliata della sua patina glamour. Il deinfluencing rende evidente l’esistenza di una cosa che potrebbe chiamarsi overinfluence e che si trova nello stesso campo del burnout, con effetti di affaticamento mentale e difficoltà a stare sui social network, insoddisfazione cronica data dal non poter star dietro ai trend e ai modelli aspirazionali, con scoppi di shopping compulsivo che si rivelano in ultima analisi insoddisfacenti e quindi latori di frustrazione. Dopotutto, la spinta all’acquisto compulsivo e impulsivo, soprattutto quando si riferisce a grandi volumi di prodotti acquistati su e-commerce come Shein o Wish, che propongono merce poco costosa ma anche di qualità infima, fatta per non durare da operai sfruttati, risulta particolarmente logorante e insultante quando avviene in barba alle difficoltà che larga parte dei potenziali consumatori stanno vivendo. Proprio su questa battaglia anti Shein e anti video haul di Shein, Karishmaclimategirl, ad esempio, ha costruito la sua carriera di anti-influencer, fornendo informazioni puntuali sullo sfruttamento dei lavoratori che questo tipo di aziende attuano sistematicamente.
me watching the deinfluencing trend videos on tiktok knowing i have never bought nor have the budget to buy all of these trendy makeup products impulsively
— 珠 (@necrobulist) February 1, 2023
Viene naturale chiedersi cosa vuol dire tutto ciò per gli influencer, per i brand e per le piattaforme coinvolte, come TikTok e Instagram, che basano i loro introiti anche su questo, e che sono cambiate di conseguenza (basti pensare alla tab shop su Instagram). Sarebbe ingenuo pensare che sia l'inizio della fine per un giro di affari e lavoro immenso, che probabilmente si re-inventerà all’infinito, prendendo nuove forme e diventando sempre più subdolo. In ogni caso, il deinfluencing appare come una spia di allarme, il sintomo di un malessere generale (che Highsnobiety ha efficacemente chiamato “consumer fatigue”), una bandiera rossa che segnala che qualcosa sta cambiando. Secondo Catalina Goanta, professoressa di economia all’Università di Utrecht che ne scrive per The Conversation, una chiave di questo cambiamento tra i content creator potrebbe e dovrebbe essere la ricerca di una maggiore trasparenza nella comunicazione con la propria user base. E se nel processo si riesce anche ad evitare qualche acquisto impulsivo, allora tanto meglio.