Avventura, radici, consapevolezza: il senso dell'appartenenza dietro Homeland
L'intervista ai due creativi che hanno curato la mostra organizzata da nss magazine
26 Gennaio 2023
Di mostre d’arte il mondo è pieno, di prospettive forse meno. Homeland nasce dall’esigenza di esplorare il concetto di appartenenza, affrontato secondo la prospettiva personale dell’artista italo-egiziano Mosa One, la fotografia di Marco Russo e la produzione di Aya Mohamed, in arte Milanpyramid. L’idea di casa, il concetto di radice, la costante della mobilità: Homeland unisce questi filoni narrativi per raccontare una storia ambientata in Egitto, fatta di alienazione, apertura, consapevolezza, nostalgia e chiusura. «Si è creata una connessione artistica fortissima tra noi due, anche perché non siamo due estranei. Abbiamo già lavorato insieme in passato, ma questa volta volevamo fare qualcosa di più significativo. Essendo due sognatori, è stato complicato trovare un equilibrio tra le nostre idee e la loro realizzazione concreta» ci hanno raccontato i due creativi.
Dietro al concetto di appartenenza, in effetti, si nasconde un serbatoio di accezioni in cui è difficile non perdersi. Per il fotografo Marco Russo appartenenza significa «rimanere in bilico tra individualismo e comunità. Sarei in grado di passare ore, se non intere giornate, a parlare di casa, radici, appartenenza. Il mio scopo è quello di documentare da dove vengo, da dove provengono gli altri, a cosa apparteniamo». Per Mose «una casa può essere una persona, un semplice ricordo, un posto fisico o mentale in cui stare in pace con sé stessi. Il senso di appartenenza dovrebbe essere qualcosa in cui riconoscersi, in cui esprimersi senza lasciarsi rinchiudere dai limiti che spesso tendiamo a mettere tra noi e gli altri». Homeland si regge su una storia articolata in 3 atti, «un processo evolutivo in cui inizio e fine coincidono. La nostra esistenza, d’altronde, non è scandita da un andamento lineare, ma assume la forma di una spirale con cerchi concentrici» ci ha raccontato Marco. «In tre parole: avventura, radici, consapevolezza» ha aggiunto Mosa. Dopo aver vissuto per gran parte della sua vita in Italia, l’artista italo-egiziano si è ritrovato catapultato tra i paesaggi di cui conserva soltanto brevi scorci da bambino. «Il ritorno nella terra d’origine all’inizio è quasi sempre frustrante, devi prenderti del tempo per riprendere confidenza nuovamente con lo spazio che ti circonda. Sembra di ricominciare un libro dallo stesso punto in cui lo avevi lasciato. Ma ci ritorni ogni volta cambiato tu e cambiato lui» ci hanno spiegato i due creativi.
Un momento di distacco, ma in realtà di appartenenza per il protagonista del viaggio in Egitto che «ci ha permesso di (ri)stabilire una connessione con una terra che si è rivelata incredibilmente ospitale». Tutte questi componenti costituiscono la cornice all'interno della quale il protagonista diventa e si sente parte integrante del tessuto sociale egiziano. Mosa non è più uno spettatore, anzi, è la città che ora si racconta attraverso i suoi occhi. E arriviamo all’ultimo, al termine di questo viaggio che vede il raggiungimento di una completa introspezione sulla propria identità. Il sentimento di distacco iniziale si trasforma così in nostalgia e tristezza per il prossimo abbandono. «E’ sempre difficile salutare la famiglia quando stai per andar via, perché sai che per i prossimi mesi o anni, finché non tornerai, quel rapporto non sarà lo stesso. Rimarrà in sospeso» ci hanno riferito Mosa e Marco. Con questa mostra vorremmo diffondere la «consapevolezza che siamo tutti esseri in continuo mutamento e costante crescita: viviamo soprattutto all’esterno di noi stessi, ma vorremmo spingere le persone a restare focalizzati all’interno di se stessi per alimentare la propria unicità. Mantenere curiosità e creatività è fondamentale, perché ci permette di non farci limitare dalle definizioni che ci impone la società in cui viviamo».