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Il controsenso di un’arte inumana

Quando l'ispirazione non c'è, la si può sempre fabbricare

Il controsenso di un’arte inumana Quando l'ispirazione non c'è, la si può sempre fabbricare

Nel mondo di oggi non serve la finzione: la realtà è più assurda, coinvolgente e ricca di colpi di scena di qualunque cosa George R.R. Martin potrebbe mai scrivere. Eppure c’è un fenomeno interessante che sta prendendo piede online: si chiama, per mancanza di un termine più adatto, “unreality” e ha avuto inizio con un film di nome Goncharov, detto “il più grande film di mafia mai creato”. Il film, diretto da Martin Scorsese nel 1973, vede Robert De Niro nei panni di un gangster russo che si trasferisce sotto copertura a Napoli diventando un boss della mafia locale. C’è solo un problema: il film non esiste ed è stato collettivamente creato da un insieme di fan di Tumblr e Twitter che ne hanno via via immaginato l’esistenza, disegnando un poster, stabilendo un cast, editando delle GIF che ne ritraggono le scene e persino scrivendo una trama che include personaggi secondari e triangoli amorosi. A novembre, un fan ha composto anche una colonna sonora per il film la cui fama si è accresciuta prima quando Neil Gaiman lo ha menzionato come «Tumblr inside joke», poi diventando il soggetto di un articolo del The New York Times e infine, come ultimo trionfo, trovando scherzosa conferma con Martin Scorsese stesso che, informato dalla figlia Francesca del fenomeno, ha affermato di averlo effettivamente diretto. La cosa non è finita qui. Sfruttando l’intelligenza artificiale MidJourney, negli ultimi mesi, utenti web di tutto il mondo hanno iniziato a creare scene e poster di film mai esistiti: Höllenhund, un film horror diretto da Fritz Lang nel 1919 e perduto in un incendio; Transformers se fosse un film espressionista tedesco; Il Signore degli Anelli adattato da Ed Wood negli anni '50; Star Wars se fosse un’opera teatrale kabuki; versioni di BatmanThe Avengers The Shining dirette da Wes Anderson, Tron nella versione di Alejandro Jodorowsky, Il Grinch in quella di Kubrick o Matrix se fosse stato girato negli anni ’80 da Ridley Scott con set disegnati da H.R. Giger. 

@confusiondoodle I am genuinely in love with Goncharov, it is so good tho #goncharov #goncharov1973 Cool Kids (our sped up version) - Echosmith
Il gioco di Goncharov stimola una nuova forma di produzione creativa, ovvero l’operazione (molto borgesiana a dire il vero) di creare per induzione qualcosa di vero a partire pochi dettagli immaginari. Eppure questa ucronia cinefila alimentata dal software MidJourney finisce per coinvolgere la difficile questione della creatività umana nel mondo delle intelligenze artificiali. Spieghiamoci meglio: molti creativi di oggi, da disegnatori/pittori a scrittori e traduttori, si dichiarano allarmati dall’ascesa delle AI capaci di scrivere e illustrare libri, tradurre testi o generare immagini che richiederebbero mesi di studio e lavoro per un normale essere umano. Negli stessi giorni in cui le app di AI art come Lensa stanno ascendendo in cima alla Top 10 dell’App Store per la prima volta nella storia, è scoppiata una controversia su ArtStation, forse la piattaforma online più rilevante nella promozione di arti grafiche indipendenti, che, come spiega Kotaku, «non ha alcuna politica che limiti direttamente l'hosting o la visualizzazione di immagini generate dall'intelligenza artificiale sul sito, il che ha portato a ripetuti casi in cui immagini realizzate da computer, e non da esseri umani, sono salite in cima alla sezione "Esplora" di ArtStation». Così gli artisti presenti sulla piattaforma hanno sostituito con il classico segnale di divieto la propria immagine di profilo, rivelando così quali fossero human based e quali AI based. La lotta non è filosofica ma economica e legale: la tecnologia di scraping con cui cui le intelligenze artificiali scandagliano Internet e recuperano gli “atomi” usati per generare il loro output si basa su immagini pre-esistenti che includono quelle degli artisti umani, rappresentando secondo alcuni una forma più elaborata di plagio. In effetti, osservando su Reddit gli still di un film immaginario di Dario Argento di nome Inferno di Stelle si può notare come molti elementi siano copiati da 2001: Odissea nello Spazio, altri prelevati da fotografie dell’attrice Barbara Steele e via dicendo, tutti rimescolati fino a sembrare un film originale. L’artista Zed Edge ha riassunto la questione su Twitter

«Quando ci riferiamo all’arte, gli esseri umani la usano come ispirazione, le intelligenze artificiali come una campionatura. Senza riferimenti, gli umani possono visualizzare idee mentre le AI non ci riescono – entrambi ne beneficiano, ma le AI sono dipendenti dai riferimenti. Le AI non “imparano” dall’arte ma manipolano l’arte fino a renderla irriconoscibile, fingendo che sia nuova. Senza il consenso o la compensazione dell’artista originale, l’arte delle AI è un furto».

All’inizio di questo mese il mondo dell’Unreality e quello della proprietà intellettuale legalmente protetta si sono trovati di fronte a un dilemma finora irrisolto. Justin Roiland, creatore di Rick & Morty, ha prodotto il videogame High On Life, sorta di avventura sci-fi/comedy nel cui gameplay si trovano dei poster di film immaginari creati con MidJourney, e ha definito la piattaforma AI come «uno strumento che ha il potenziale per rendere la creazione di contenuti incredibilmente accessibile». Il che ha messo su un nuovo livello il problema dell’AI art che in questo caso è usata per creare asset commerciali al posto di un artista stipendiato. A vantaggio di chi, dunque, la creatività diventa più accessibile? Anche nella moda l’utilizzo delle AI genera le medesime preoccupazioni: il software Cala, ad esempio, può generare design a partire da parole chiave o immagini pre-esisitenti. Sulle pagine di BoF, il CEO della piattaforma, Andrew Wyatt, argomenta che fornire immagini o anche solo descrizioni verbali a un team di design, pratica tipica di Virgil Abloh, di Miuccia Prada e di Rei Kawakubo, nessuno dei quali disegna bozzetti o crea prototipi, non è troppo diverso da inserire un prompt in un generatore di immagini gestito da un AI che, tra l’altro, sono programmati per non copiare troppo da vicino i loro “spunti” – né, l’autore del pezzo argomenta, l’idea di un designer che copia è qualcosa di mai visto o sentito nella moda. Siamo ancora lontani da un takeover delle intelligenze artificiali, non di meno, l’esistenza di tali piattaforme nella moda fa scorgere un futuro in cui le AI potranno disegnare capi basandosi su un algoritmo programmato per intercettare e apprendere i trend. Il che sarebbe preoccupante, anche se Wyatt paragona un designer che usa l’intelligenza artificiale a un matematico che utilizza una calcolatrice.  Allo stesso modo, i propositori delle AI nel design di videogiochi citano la rapidità e gratuità grazie alla quale si possono animare gameplay complessi come Red Dead Redemption, per fare un esempio, senza il monte ore e lo staff che normalmente servirebbero.

Chi sostiene l’uso delle AI nelle sue diverse e infinite applicazioni, sostiene che le AI stimoleranno la creatività – ma la creatività di chi? A essere in gioco nella questione, prima ancora che trademark e proprietà intellettuali, prima ancora della nozione stessa di arte, è il ruolo di cui la società ha investito il creativo, in tutte le sue possibili accezioni. Nella nostra società, anche se spesso vituperato, plagiato, sottopagato, sfruttato e messo in secondo piano, il “creativo” mantiene il suo piedistallo sociale, quell’aura un po’ mistica che deriva dal processo, ancora tutto mentale e umano, di concepire idee e generare contenuti artistici. Ora quei creativi rischiano di perdere anche quel piedistallo, sostituiti da un software che non solo ne rimpiazza il lavoro ma lo svaluta, ricopiandolo per una minima frazione del costo. Il che è una possibile deriva futura della deriva contemporanea che ha visto, ad esempio, il ruolo del direttore creativo e quello del designer capace di creare gli effettivi abiti o anche solo i bozzetti divergere, in base a un’idea di meccanizzazione della produzione creativa (la catena di comando di un grande atelier commerciale ne è un esempio perfetto) i cui esiti finali portano necessariamente verso la completa automazione promessa proprio dalle AI. L’adorazione che tributiamo, ad esempio, a Virgil Abloh per il suo innovativo metodo di mandare ispirazioni al suo team via Whatsapp senza disegnare item in prima persona (ma sono pochi i direttori creativi che producono bozzetti e disegnano), suddividendo e atomizzando le varie fasi della creatività, è forse proprio ciò che aprirà la strada all’arrivo di direzioni creative interamente digitalizzate. Il futuro, comunque, non si conosce. Possiamo però dire con una certa certezza, citando Victor Hugo: «Ceci tuera cela».