Quali sono le reazioni alle dimostrazioni ambientaliste nei musei?
Tra misure di sicurezza sempre più ferree e critiche online
30 Novembre 2022
Recentemente a Milano alcune attiviste del gruppo ecologista Ultima Generazione hanno riversato otto chili di farina su un’auto dipinta da Andy Warhol, esposta alla Fabbrica del Vapore. All’inizio di novembre l’organizzazione aveva rivendicato il lancio di una minestra di verdura sul vetro di un’opera di Van Gogh, esposta a Roma, e negli ultimi mesi molti suoi membri hanno bloccato più volte il Grande Raccordo Anulare, una delle strade più trafficate della Capitale. Gesti analoghi sono stati fatti in molti altri Paesi, da realtà come Just Stop Oil nel Regno Unito o Letzte Generation in Germania. In risposta a questi eventi diversi musei – grandi e piccoli, in Europa e negli Usa – stanno aumentando le proprie misure di sicurezza. Ma fermare le proteste prima che avvengano è più complicato del previsto.
Innanzitutto perché le azioni sono svolte con modalità a cui gli agenti di sicurezza dei musei non sono abituati, e tanto meno sono addestrati a riconoscerle e a reagire per tempo. Il Wall Street Journal riporta che, negli Stati Uniti, vari istituti museali, per addestrare i propri addetti alla sorveglianza, si sono rivolti ad agenzie di sicurezza che collaborano con aeroporti e grandi eventi sportivi. Ad esempio, una società californiana specializzata nella formazione di personale di sicurezza, Chameleon Associates, è stata assunta da dei centri per inviare alle esposizioni il proprio personale in borghese, che senza preavviso si comporterà esattamente come farebbe un manifestante – girando cioè alla ricerca delle telecamere, dirigendosi in fretta verso i dipinti più famosi, o comunicando con i propri complici a gesti. L’obiettivo è insegnare alle guardie nelle gallerie a riconoscere più velocemente eventuali dimostrazioni ambientaliste.
Più semplicemente, numerosi musei stanno cominciando a essere molto più rigidi su ciò che si può portare all’interno delle mostre. Ad esempio, alla galleria Barberini di Potsdam, in Germania, dove due attivisti per il clima avevano gettato puré contro il vetro di un’opera di Monet, non è più permesso ai visitatori entrare con delle borse. Recentemente le guardie del Musée d’Orsay di Parigi hanno fermato una donna che aveva con sé una bottiglietta piena di zuppa e indossava una t-shirt di Just Stop Oil. I musei, inoltre, si stanno adoperando per applicare la protezione in vetro ai quadri che ancora non la prevedevano.
La probabilità che i manifestanti prendano di mira opere sprovviste di questo genere di protezione, però, sembra essere molto bassa: «Vogliono attirare l’attenzione, ma non vogliono finire nei guai. Per ora quello che fanno non è un reato molto grave, se nulla è seriamente danneggiato» ha detto ad Artnet un consulente per la sicurezza che ha lavorato al Metropolitan Museum di New York. Dato che finora non sono stati registrati danni consistenti alle opere d’arte, altri musei non credono sia necessario intensificare ulteriormente le misure di sicurezza, rendendo le gallerie esageratamente sorvegliate: «I musei devono essere spazi aperti e sicuri. Per non trasformarli in aree di massima sicurezza come gli aeroporti, è importante che troviamo un equilibrio tra le misure di sicurezza che proteggano i nostri visitatori e il preservare i musei come luoghi di libertà», ha dichiarato Christina Haak, vicedirettrice dei Musei statali di Berlino.
In tutti i casi le dimostrazioni per il clima nelle gallerie hanno suscitato reazioni molto forti, sia online che tra le persone presenti. Un’attivista di Ultima Generazione, durante l’iniziativa alla Fabbrica del Vapore di Milano, ha detto a una donna che la accusava di averla privata dell’arte di Warhol: «In Italia non stiamo parlando abbastanza del cambiamento climatico: di questo ho molta più paura. Guarda cosa siamo costrette a fare per il futuro del nostro Paese». Durante le manifestazioni gli attivisti vengono insultati, colpiti e strattonati, mentre i commenti d’odio online sono innumerevoli. Ma secondo le organizzazioni per il clima tutto questo “fa parte del gioco”: dal momento che l’obiettivo delle azioni è generare conflitto, la rabbia delle persone sarebbe un segnale positivo. Per i dimostranti le proteste hanno successo quando, in un modo o nell’altro, costringono milioni di persone a riflettere sulla crisi climatica, anche attraverso il confronto sulla legittimità o meno di azioni radicali. Inoltre, tra i gruppi ambientalisti è sempre più diffusa la frustrazione per gli scarsi risultati ottenuti dalle manifestazioni pacifiche. Oggi diverse organizzazioni, nell’affrontare il cosiddetto dilemma dell’attivista – cioè la scelta tra l’approccio pacifico ma ignorato, o che cattura l’attenzione ma più estremo – scelgono la via più radicale, con tutti i rischi e le difficoltà che comporta. I dimostranti sostengono che il tempo per essere moderati sia scaduto. Nonostante questo, la loro è una rivolta “gentile”: sono infatti consapevoli della necessità di mostrarsi empatici verso le critiche, e senza reagire agli insulti cercano di traghettare la discussione verso la causa ambientalista. Non a caso il riferimento politico e filosofico più seguito dagli attivisti è Gandhi e il principio della lotta nonviolenta.
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C’è però il rischio che la presa di coscienza sulla crisi climatica da parte dell’opinione pubblica avvenga quando ormai è troppo tardi. Questa è la ragione alla base delle posizioni ambientaliste più radicali, sostenute da una minoranza presente soprattutto in Nord Europa. Nel 2021 l’attivista svedese Andreas Malm ha pubblicato “Come far saltare un oleodotto”, un saggio che sostiene il sabotaggio come forma reazionaria alla mancata presa di coscienza della crisi climatica, da parte dei governi e della popolazione in generale. Forte di questo assunto, lo scorso aprile Just Stop Oil danneggiò pompe di benzina sull’autostrada londinese M25; molte autocisterne poi vennero bloccate e almeno 275 attivisti furono arrestati. In Italia, invece, le iniziative più estreme sono state quelle di Extinction Rebellion e Climate Strike, che hanno rispettivamente bloccato un ponte a Bologna, e fatto irruzione nell’aeroporto di Ciampino per fermare i jet privati. Tutti eventi, questi, che dimostrano che una forma di radicalizzazione può avvenire anche per la causa ambientalista, e in parte ricalca l’urgenza con cui le istituzioni dovrebbero affrontare il cambiamento climatico e le sue gravi conseguenze – già oggi percepibili.