Perché le storie sulla cucina stanno diventando così ansiogene
Da "The Bear" a "The Menu" siamo nell'anno delle cucine da incubo
21 Ottobre 2022
C’è stata un’epoca in cui i film sui cuochi e sulla cucina erano storie calorose, spesso romantiche e allegre: da Chocolat a Semplicemente Irresistibile, da Big Night a Ratatouille passando da Il pranzo di Babette, Julie & Julia e Soul Food, il mondo del cibo e della gastronomia era il tramite perfetto per raccontare di amori, di dinamiche familiari, di comunità che si riunivano a tavola. Negli anni successivi la narrativa che circondava la cucina e i cuochi si è espansa al di là di commedie romantiche e occasionali film arthouse con l’enorme diffusione di programmi televisivi come Masterchef, Hell’s Kitchen, Cucine da Incubo e 4 Ristoranti che, pur creando un mito intorno a figure di chef come Bottura, Cracco, Cannavacciuolo, Borghese e via dicendo, ponevano sempre più enfasi sulla cucina come intrattenimento ma trascurando le tecniche e l’expertise dell’arte gastronomica vera e propria.
Sempre questi programmi tendevano a offrire una visione idealizzata del lavoro nella ristorazione la cui facciata ha iniziato presto a erodersi negli anni con l’emergere di nuovi tipi di narrativa: chef stellati che si ritirano dalle scene per sfuggire allo stress, denunce di paghe misere e condizioni di lavoro devastanti per il personale delle cucine, storie di clienti da incubo che emergono dai commenti di Tripadvisor e via dicendo. In breve, all’idealizzazione del mondo della cucina, è subentrato un disincanto che, negli ultimi anni, è stato interpretato attraverso un mini-filone di film e serie che descrivono i retroscena dei ristoranti come qualcosa di assolutamente ansiogeno. L’esempio principale potrebbe essere The Bear, serie-hit di HBO che cala gli spettatori nella agitatissima cucina di un ristorantino di Chicago; c’è poi l'incredibile film indie Boiling Point, girato in un unico, angoscioso piano sequenza e che l'anno prossimo sarà trasformato in una serie da BBC; e gli imminenti The Menu e Flux Gourmet, in cui la cucina diventa il tramite di oscuri giochi di potere.
Il graduale reframing della narrativa che circonda il mondo della cucina è in realtà il frutto della spropositata attenzione che i media gli hanno tributato. Se oggi gli stessi show di cucina nascono come auto-parodie, pensate a James May: Oh Cook o allo sfortunato esperimento di Cooking with Paris, per molti anni il successo di Masterchef ha creato una vera e propria egemonia culturale che ha portato alla nascita della categoria degli star chef, cuochi blasonatissimi che abbandonano la cucina per promuovere negozi, condurre programmi televisivi, pubblicare libri, aprire più ristoranti di quanti sarebbe possibile dirigerne e via dicendo.
Proprio questo ruolo di fama assoluta raggiunto da alcuni chef ha creato contro-reazioni provenienti da aree meno in luce dell’industria della ristorazione: dai loro colleghi che criticano la trasformazione dei cuochi in celebrity, ai lavoratori della cucina che denunciano le terribili condizioni di lavoro, passando per i clienti-troll che creano putiferi online postano foto di scontrini salatissimi o postando recensioni che di frequente degenerano in scontri online in cui il ristoratore stesso interviene denunciando a sua volta la maleducazione del cliente. La sovraesposizione porta alla disillusione, certo, anche se a dire il vero la tossicità del lavoro nella ristorazione non era stata affatto celata da quei programmi, che piuttosto la trasformavano in fonte di spettacolo. Gordon Ramsay ha costruito un intero personaggio televisivo sull’abuso verbale – caratteristica copiata, in versione soft, dalle sue controparti italiane che l’hanno trasformata in una sorta di gelida autorità.
Questa narrativa ora ha fatto il proverbiale giro: la crudeltà autoritaria che trasformava in intrattenimento il pessimo carattere dei cuochi adesso perde un layer di ironia per avvicinarsi alla denuncia, pur rimanendo intrattenimento. Le prime puntate di The Bear sforzano molto la questione, con il protagonista che prova con difficoltà a implementare una catena di comando gerarchica nel ristorantino di bassa lega del fratello mentre è tormentato dai ricordi della disciplina quasi militaristica e totalmente traumatizzante del suo precedente ruolo come chef de cuisine in un ristorante di lusso – arrivando anche ad ammettere di vomitare ogni mattina prima di entrare a lavoro a causa della tensione.
Stranamente, la vita imita l’arte: se in Italia le iscrizioni agli istituti alberghieri erano 64.296 nel 2014, l’anno del boom di Masterchef, dopo il lockdown «gli iscritti hanno di poco superato le 34mila unità. In pratica in sei anni gli italiani che hanno scelto la scuola alberghiera si sono quasi dimezzati», come riporta Italia a Tavola. La stessa testata cita anche Matteo Scibilia, chef del Piazza della Repubblica di Milano e vicepresidente di Confcommercio Vimercate, che dice: «L'effetto mediatico della comunicazione televisiva ha illuso tantissimi ragazzi […]. La realtà non è proprio così: per diventare un cuoco fatto e finito serve tanta esperienza, tanto sacrificio, tanto apprendistato. […] Tanti ragazzi hanno pensato che due mesi di Masterchef potessero formare un grande cuoco».
@hogtiedhannibal Is the most relaxing edit I’ve ever made just Hannibal cooking people? You decide #hannibal #hannibalnbc #hannibaledit #hanniballecter #madsmikkelsen #cooking Satie "Gnossiennes No.1" (piano)(1118396) - Akira Orihata
È chiaro che il tema della crisi del personale vanno a toccare questioni sociali più grandi del semplice intrattenimento mediatico – ma il filone che potremmo definire della “cucina iperrealistica” rappresentato soprattutto da The Bear e Boiling Point è indice non di meno di una disillusione nei confronti del mondo della cucina che, al di qua dello schermo televisivo e cinematografico, gli chef affermati a loro volta combattono raccontando le proprie storie di stage non retribuiti, di weekend passati a lavorare, di turni in cucina da 12 ore e di una serie di sacrifici che le nuove generazioni considererebbero forse scarsamente accettabili.
Chiaro, che la cultura dello chef-star fosse in crisi si evinceva già qualche anno fa, all’apice del successo di Masterchef, da film come Chef, dove il personaggio di Jon Favreau riscopre la passione per la cucina facendo panini in un furgoncino e mollando il suo stressante lavoro in un ristorante francese, o in una serie come Hannibal dove, con grande ironia, si enfatizzava l’incredibile bravura culinaria del protagonista i cui piatti di alta cucina erano, però, erano fatti di carne umana. I nuovi media, però, abbandonate le sfumature comedy e horror, preferiscono affrontare la realtà di petto – quasi a dire che dal mindset tossico del cuoco-tiranno una via d’uscita esiste. Magari qualcuno l’avrà trovata per quando la seconda stagione di The Bear arriverà sui nostri schermi.