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Il valore ideologico di un abito «Perché vesto sempre di nero», intervista a Michelangelo Pistoletto

C'è questo libro di Alain Elkann intitolato “La voce di Pistoletto”, in cui la copertina e il retro sono tappezzati di ritratti del mio viso, uno diverso dall'altro. Ho sempre preso forme diverse finché nel 1969 ho realizzato un'opera che si intitolava “L'uomo nero”. “L'uomo nero”, come uno specchio, non ha immagine propria. Il nero non è solo da una parte o dall'altra, è dappertutto. Rappresenta il vuoto all'interno del quale esistono le stelle.

Il valore ideologico di un abito «Perché vesto sempre di nero», intervista a Michelangelo Pistoletto

Il valore ideologico di un abito «Perché vesto sempre di nero», intervista a Michelangelo Pistoletto

Ma non sono contrario ai colori. Ecco, adesso le faccio vedere le mie calze (ride sollevando il pantalone alla caviglia e svelando pois gialli su sfondo rosso). Non rinnego il colore, anzi penso che proprio il nero faccia da base a un universo colorato. Ma prenda per esempio gli abiti dei monaci di qualsiasi religione, il loro abito nero è aconsumistico e anche il mio.

Un dalmata di ceramica di fronte ad un imponente specchio dalla cornice dorata, un mobiletto ricoperto di ninnoli, candele e penne variopinte, un tavolo in legno tappezzato di appunti a matita e un ulteriore specchio, questa volta con un cappio dipinto sopra. Se dovessimo definire una casa dagli oggetti che la compongono, l’appartamento di Michelangelo Pistoletto situato nel più ampio complesso di Città dell’Arte a Biella, parlerebbe di giocosità, ironia e di una propensione marcata al colore. Ma associare la casa al suo possessore può sortire, in questo caso, un effetto straniante. Pistoletto è solenne, composto nei modi, ci fa spazio tra i suoi appunti con una moka fumante e una stretta di mano decisa. Gli abiti - tranne le calze, scopriremo poi - sono neri, dal girocollo in lana ai pantaloni sartoriali. Il cappello e il foulard che da anni contraddistinguono la sua immagine pubblica sono invece nell’altra stanza. Quando si siede al tavolo e sorseggia il caffè, il cappio disegnato sullo specchio che gli fa da sfondo sembra avvolgergli il collo in un’illusione ottica vagamente agghiacciante, e durante l’intervista incombe, appare e scompare, a seconda della prossemica. Lo scopriremo nelle parole di Pistoletto: lo specchio modifica la nostra percezione della realtà. Di morte, in effetti, durante la nostra intervista abbiamo parlato, così come di sostenibilità, di umanità, del valore ideologico di un abito e del valore ideologico del suo di abito. L’autore della Venere degli Stracci, l’uomo in cui Germano Celant riconobbe il perfetto poverista nonché l’instancabile ambientalista che fondò Città Dell’Arte per dimostrare che un modello sociale migliore e diverso può esistere, ha parlato del suo impegno con i Sustainability Award di Camera Moda e del perchè veste solo di nero. Nel farlo, ha rivelato anche il mistero dietro al cortocircuito estetico tra l’estrosità della sua casa e la sobrietà del suo abito: «Non sono contrario ai colori. Ecco, adesso le faccio vedere le mie calze» confessa Pistoletto in una risata, sollevando il pantalone alla caviglia e svelando pois gialli su sfondo rosso.

Ha detto di sé: sono uno scienziato che parla per immagini.

Sì, sono uno scienziato che parla per immagini. Questo l'ho detto e lo affermo perché il mio operare artistico non è soltanto espressione immaginifica, emotiva e fantasiosa ma è ricerca di conoscenza. Proprio perché voglio conoscere, metto la mia emozione a disposizione di una ricerca che è razionale. C'è una razionalità che mi ha portato a trovare con i quadri specchianti la dimensione fenomenologica dell'esistente. Quando parlo di fenomenologia vuol dire che io nel quadro non metto delle mie proposte come proposte definitive, autonome e assolute, ma chiedo alla realtà esistente, attraverso lo specchio, di darmi tutta l'immagine possibile di ciò che esiste. E da questa immagine io cerco via via di capire qual è la fenomenologia che permette all'esistente di esistere. È una ricerca che mi unisce alla scienza. Quando faccio una scoperta artistica, ho veramente il massimo dell'emozione perché raggiungo una conoscenza che prima non esisteva. Si passa da una mancanza a qualcosa che è creato, che esiste.

La Venere degli Stracci e il Terzo Paradiso sono dal 2012 a questa parte il simbolo dei Sustainability Award di Camera Moda. Le volevo chiedere di questa scelta che porta avanti la complessa discussione del rapporto tra arte e moda.

La moda è uno degli aspetti importanti del nostro vivere in società, perché gli abiti sono la seconda nostra pelle. L'abito che indossiamo esprime idee - sociali, politiche - che si diffondono nel mondo. Nell'antichità ci sono sempre stati i costumi: ogni paese aveva il proprio costume dal ricamo, taglio, disegn peculiare. Tutto, dal copricapo al pantalone indice di appartenenza di quel determinato paese. Nella modernità si è scoperta questa libertà assoluta, questa fantasia che si esprime fino agli estremi nella moda e che porta a una libertà moderna, straordinaria. Ma bisogna sempre fare i conti con la materia, con il concetto stesso di consumo. 

E come facciamo i conti con il concetto di consumo? 

Basandosi sul superfluo piuttosto che sul necessario. Sono tanti gli elementi che fanno sì che ci troviamo davanti, oggi, a un’inondazione di stracci che riempiono terreni enormi. In Africa, per esempio, dove le spiagge sono coperte da metri e metri di stracci realizzati senza alcuna necessità, per alimentare un consumismo che ci invade. Il consumismo è un fatto mentale, culturale, economico, e se fosse solo questo andrebbe anche bene, ma ci invade fisicamente, matericamente. Se dovessi rifare oggi la Venere ad esempio, probabilmente non sarebbe di stracci ma di plastica, a raffigurare il quantitativo di rifiuti che invade gli Oceani. La Venere non si pone come risoluzione, ma lancia un messaggio. 

Anche la sua scelta di indossare solo abiti neri lancia un messaggio? 

C'è questo libro di Alain Elkann intitolato La voce di Pistoletto, in cui la copertina e il retro sono tappezzati di ritratti del mio viso, uno diverso dall'altro. Ho sempre preso forme diverse negli anni, finché nel 1969 ho realizzato un'opera che si intitolava L'uomo nero. L’opera rappresenta il gioco dell'uomo nero, che consiste nell'avere 21 sedie e 21 persone sedute, tutti si alzano e cercano di occupare un'altra sedia, ma c'è sempre un individuo che rimane senza sedia. Quello è l'uomo nero e corrisponde allo specchio, perché lo specchio rappresenta tutto ciò che esiste, eccetto se stesso, perché lo specchio non ha immagine propria. L'uomo nero non ha immagine propria ed è come il nero che vediamo di notte guardando il cielo stellato. Il nero non è solo da una parte o dall'altra, è dappertutto. Rappresenta il vuoto all'interno del quale esistono le stelle. L'universo si sviluppa dentro questo grande vuoto. Quindi il nero di questo gioco diventa anche il nero dello specchio, dello spazio e del tempo universale. Ma non sono contrario ai colori. Ecco, adesso le faccio vedere le mie calze (ride sollevando il pantalone alla caviglia e svelando pois gialli su sfondo rosso). Non rinnego il colore, anzi penso che proprio il nero faccia da base a un universo colorato. Ma prenda per esempio gli abiti dei monaci di qualsiasi religione, il loro abito nero è aconsumistico e anche il mio.

Le faccio una domanda fuori contesto rispetto a quello che ci siamo detti finora. In un’intervista, a proposito della morte, ha detto: siamo tutti già immortali.

Siamo tutti immortali in quanto conteniamo l'immortalità di quelli che ci hanno preceduti. Nulla di nuovo nella natura fisica. Questa immortalità non è, come dire, capita e evidenziata e vissuta coscientemente, perché gli animali vivono di un’immortalità che è quella dell'universo. Gli esseri umani hanno trovato il modo - con i segni, le parole, le immagini, le sculture, le forme e i numeri - di lasciare tracce. E queste tracce che abbiamo lasciato, che sono state lasciate nel passato, sono sempre presenti nelle generazioni successive. E siamo arrivati oggi attraverso anche i musei, attraverso la letteratura, persino l'intelligenza artificiale, a mettere insieme tutte le memorie. Tu che hai lasciato un segno, sei presente nella combinazione che questo segno porterà avanti con tutti gli altri segni nel futuro. Questa è l'immortalità. 

Intervista di Maria Stanchieri, foto Vincenzo Schioppa.