Vogue.com può davvero permettersi di attaccare gli influencers?
E in ogni caso, nel 2016 dovrebbe ancora importarci?
28 Settembre 2016
Pensavate che la “lotta di classe” fra fashion blogger (oggi, influencers) e giornalisti di moda fosse storia vecchia? Ebbene no, a quanto pare ogni momento è buono per rispolverarla – sì, anche il 2016, a più di otto anni da quando i primi blog iniziavano a fare un po’ di scalpore mediatico.
Il melodramma si è consumato proprio due giorni fa, a colpi di tweet e repost come ogni discussione che si rispetti oggigiorno. Vogue.com ha pubblicato un articolo di recap sulla settimana della moda di Milano scritto a quattro mani fra le varie editor, e fin qui niente di nuovo. Il problema è insorto quando, a coronamento degli elogi intessuti alla MFW, alla sua ritrovata spinta creativa e all’impeccabile qualità dei tessuti e della lavorazione, Sally Singer, Creative digital director di Vogue, ha avuto la brillante idea di lanciare una frecciatina al fenomeno blogger: “Nota per i blogger che cambiano outfit dalla testa ai piedi ogni ora: per favore smettetela. Cercatevi un altro lavoro. State proclamando la morte dello stile”.
L’uscita della Singer ha scatenato una sorta di reazione a catena. Sarah Mower, Chief Critic di Vogue.com, ha evidenziato la critica della collega, aggiungendo “Quindi sì, Sally, riguardo ai blogger professionisti, con l’aggiunta dello sciame di fotografi di street style, è orribile, ma soprattutto patetico, vedere quante volte queste ragazze corrono disperatamente in qua e là fuori dagli show, nel traffico, a volte perfino rischiando un incidente, nella speranza di essere fotografate.”
Nicole Phelps, direttrice di Vogue Runway, si è spinta ancora un passo un po’ più in là, facendo riferimento anche alle aziende: “Non è solo triste per le donne che si pavoneggiano davanti all’obiettivo indossando abiti in prestito. È angosciante vedere così tanti brand collaborare. Non a caso Versace (ndr: in realtà la casa di moda ha spesso vestito influencer e it-girl fotografate poi per la pagina di street style di Vogue.com stesso) e BV sono due case di moda che non stanno al gioco”.
Alessandra Codinha, news fashion editor di Vogue.com, infine, ha rigirato il coltello nella piaga, mettendo in dubbio perfino il ruolo di chi definiamo blogger: “Posso ammettere che ho esultato un po’ quando Sally ha affrontato il paradosso dei blogger? Non c’è molto che io possa aggiungere, se non quanto sia divertente il fatto che ancora li chiamiamo ‘blogger’ quando ormai pochissimi di loro di fatto lo sono ancora. Più che la celebrazione di un qualsiasi stile, sembra che si tratti solo di mostrarsi, apparire ridicoli, posare, contorcersi sulla propria seduta mentre si controlla il proprio feed sui social, dileguarsi alla svelta, cambiarsi, ripetere tutto da capo… E’ tutto piuttosto imbarazzante – soprattutto considerato tutto ciò che sta succedendo nel resto del mondo. [...] Cercare stile tra chi viene pagato per essere in prima fila è come andare a cercare l’amore in uno strip club.”
Il tutto ci riporta indietro nel tempo, al famoso episodio in cui nel 2011 Franca Sozzani pubblicò su Vogue.it un articolo dal titolo “Blogger: un fenomeno o un’epidemia?” che fece infuriare i blogger italiani del momento capitanati da Chiara Ferragni sentenziando risoluta “Non hanno punti di vista, ma parlano solo di se stesse/i e si fotografano con abiti assurdi. Qual è il senso? Intanto io non so neanche chi siano, a parte qualcuno/a, perché sono tanti e tutti uguali, e così presi nel cambiare vestito per farsi notare, che automaticamente ai miei occhi diventano un gruppo e non delle singole persone.
Al tempo, si pensava che uno dei motivi per cui i blogger non riuscivano ad entrare nelle grazie delle più rinomate testate fosse che in un certo senso soppiantavano la carta stampata con il web attraverso contenuti a presa rapida, aggiornati quotidianamente – se non addirittura più volte al giorno –, portando una ventata d’aria fresca fatta di trend trasposti direttamente dalla strada allo schermo del nostro pc, inventandosi un lavoro e soprattutto un format con cui i giornali arrancavano a stare al passo. Oggi però, i giornali hanno fatto passi da gigante, si divincolano molto bene fra algoritmi e social media e di conflitto fra web e cartaceo non si può più parlare. L’astio contro blogger e influencer è però ancora vivido.
Ma perché, se ormai i giornalisti professionisti hanno gli strumenti per competere con queste figure più amatoriali? Perché, se molti magazine si appoggiano a delle figure di spicco nelle realtà social, basti pensare alle It-Girls di Grazia e alle Filles de L’Officiel? Perché, se perfino Vogue.com pubblica almeno due contenuti al giorno incentrati su it-girls scovate da Instagram? Perché se alla “Vogue Fashion Night Out”, organizzata dal blasonato magazine, molti eventi sono condotti proprio da blogger e influencer?
Susie Bubble, una delle pioniere del fenomeno ‘fashion blogger’, ma anche stimata scrittrice di moda che ha saputo guadagnarsi i propri spazi su testate di culto – una su tutte, Dazed & Confused –, si è sentita tirata in causa e ha risposto alla polemica con una serie di tweet che lasciano trapelare un tono scocciato, frustrato e soprattutto stanco di ripetere le stesse cose da anni per vedere il proprio lavoro riconosciuto. “Prima di tutto non fingiamo che gli editors e gli stylists non debbano in un modo o nell’altro ringraziare i brand, riscuotendo un salario per la pubblicazione…” ha twittato “Poi, i blogger che indossano vestiti prestati o outfit che sono pagati per mettersi stanno solo facendo in modo più manifesto l’equivalente del sistema editorial-credit.” “E’ solo che i blogger purtroppo non hanno prestigiose testate/pubblicazioni dietro cui nascondersi e si rappresentano da soli” ha aggiunto. Inoltre, la blogger ha fatto notare che Vogue.com è il primo ad avvalersi della notorietà di certi personaggi, spesso presenti anche nella colonna di street style immortalata dal fotografo Phil Oh, contribuendo così a far crescere esponenzialmente la loro fama.
Ne emerge così un quadro composito e piuttosto interessante: un magazine storico, un’autorità nel mondo della moda, che, dall’alto di un sistema capitalizzato fatto di costosissime inserzioni per brand di lusso, di una politica giornalistica che evita accuratamente ogni critica per non perdere contatti, di features su molte “insta-girls”, influencer e quant’altro, si scaglia contro un sistema raffazzonato di posers ed eterni wannabes che guadagnano allo stesso modo – tanto networking e ottimi rapporti con i brand –, ma lo fanno in maniera più manifesta e sfacciata, tanto da risultare spesso “patetici”. Come per ogni situazione, occorre poi fare dei distinguo, perché “blogger” non fa necessariamente rima con “ignorante e incapace”. Ci sono molti blogger, Susie Bubble una su tutte, che hanno saputo fare del proprio spazio online un trampolino di lancio verso obiettivi più elevati, creandosi una possibilità di essere notati per il proprio talento nella scrittura e per la loro cultura sulla storia della moda e diventando così giornalisti professionisti ad ogni effetto, figure di tutto rispetto nel settore. Altri, come le it-girls Gilda Ambrosio e Giorgia Tordini – fondatrici e designers di Attico – hanno sfoderato doti creative di altra natura, e, in una marea di capsule collection “by blogger x” fatte di bikini o t-shirts tutte uguali, hanno saputo proporre un prodotto originale, di alta qualità, che si posiziona senza problemi in una fascia alta di mercato di fianco a brand più storici.
In conclusione, sì, è vero, i così detti “peacocks” che vivono di like e aspettano solo di incrociare lo sguardo di un fotografo ci sono e sono anche la maggioranza, ma Vogue.com può davvero permettersi di farsi portavoce di questa causa? Non ci si dovrebbe forse aspettare che la polemica nasca da un’istituzione con una linea di pensiero più coerente? Questa è una domanda che è lecito porsi.
Ma la vera questione sta a monte. Nel 2016, i blogger, gli influencer, chi acquista (o si fa prestare) per mostrare e chi ostenta sui social innescando in altri il desiderio dell’acquisto, non sono più un fenomeno in ascesa. Sono la nostra realtà quotidiana. Non solo, si tratta di una dinamica che coinvolge tutti noi – noi che prima ancora di essere individui, siamo compratori e che, nel momento in cui acquistiamo qualcosa e produciamo un contenuto da veicolare sui social, diventiamo automaticamente anche potenziali venditori. E allora, sebbene sia lecito sperare in una scossa di uno scenario ormai stagnante, alzare un polverone riguardo alla figura dell’influencer suona un po’ anacronistico in un’era in cui tutti siamo gli ‘influencer’ di qualcuno.