Intervista a Walter Picardi
20 Ottobre 2009
Walter Picardi ci accoglie nel suo nuovo studio di Ponticelli, lo definisce poco migliore di quello in cui ha lavorato fino a poco tempo fa, troppo umido e pieno di spiacevoli visitatori. E’ appena tornato da Barcellona e dice di essere un po in down da rientro. A noi sembra invece in ottima forma.
Hai viaggiato molto nella tua vita..?
Si sono stato un po in giro, ho frequentato la St. Martin di Londra, ho vissuto tre anni lì, e poi non ho mai concluso l’Accademia di Belle Arti, vorrei farlo però! Anche se tornare adesso a studiare non sarebbe facile..
Prima parlavi del sistema dell’arte napoletano, come ce lo descriveresti?
E’ molto provinciale direi. C’è ancora la credenza che se sei un artista italiano non vali nulla, se hai un nome complicato e vieni da tanto lontano invece sei uno di talento… riesci molto più facilmente ad avere un colloquio con un gallerista ad esempio. Ma il vero problema è quando hai un gallerista e poi non ce l’hai più, vieni automaticamente tagliato fuori da questo sistema.. prima i curatori ti cercano ti chiedono le cose, e poi se sparisce quel gallerista spariscono magicamente tutti.
Davvero succedono ancora queste cose?!
Soprattutto ora. Mi auguro non sia così in giro per l’europa, perchè credo che il rapporto con i galleristi debba essere di amicizia, di rispetto reciproco, il gallerista dovrebbe essere prima di tutto un uomo che ama l’arte, non soltanto un commerciante. Queste possono sembrare delle banalità, delle cose scontate, ma quando le vivi da vicino, stenti quasi a crederci per quanto questo meccanismo sia retorico. Senti di aver fatto un percorso sbagliato, con le persone sbagliate. Ti rendi conto di quanto arte e mercato siano due cose che non comunicano minimamente, per esempio avere delle scadenze, dei tempi di produzione da rispettare ti allontana dalla tua pace, dal tuo processo creativo, lo soffocano. Questo sistema è la morte dell’arte. Anche dal punto di vista delle retribuzioni il rapporto con i galleristi diventa triste e imbarazzante, dipendi da loro economicamente e questo ti condiziona e ti paralizza creativamente. A questo punto non c’è più differenza con un qualsiasi altro venditore, e il mio ruolo viene completamente meno; rispetto alla logica del produrre/vendere io così divento solo un operaio dell’arte. Dov’è l’amore allora? Preferirei piuttosto trovarmi un lavoro che non centri nulla e riuscire a fare l’”artista della domenica”, ma non credo sarebbe la stessa cosa… Credo che ciò che si vede nelle gallerie non è ciò che davvero appartiene all’artista…
Mi è sempre sembrato un passaggio molto delicato quello dal luogo di effettiva creazione all’entrata dell’opera in galleria, in questi casi si può dire che una stanza vale l’altra e l’opera non si faccia “condizionare” dalla sua cornice? Come dire che la galleria è uno spazio bianco dove tu vai a scrivere..?
Certo, è chiaro, c’è la vita a sé stante dell’opera ma una stanza può essere ottimale per la sua “lettura” e poi dipende anche dal lavoro che la galleria riesce a fare per te, di promozione del tuo lavoro ad esempio…
Forse questo è un problema peculiare dell’arte contemporanea, il fatto che un’opera abbia “bisogno” di un discorso tutto intorno ad essa, una cornice particolarmente spessa, appunto…
A napoli esiste ancora questo culto della galleria e del gallerista ma l’artista non ha bisogno necessariamente ne dell’uno ne dell’altra. In questo momento sto collaborando con 3 gallerie europee differenti ma con nessuna delle quali ho dei vincoli di nessun genere . Così è molto meglio, ho meno condizionamenti mi sento molto più libero di lavorare e la galleria e il suo proprietario non mi fanno sentire la loro presenza più di tanto, è così che dovrebbe essere.
Visitando la tua pagina di myspace ho trovato nella sezione interessi la citazione “Cerco l’uomo”, che se non vado errata è una famosa citazione del filosofo cinico Diogene. Ti reputi un cinico?
Ho avuto una bambina quindi posso dire che credo nella vita, ma sono estremamente contraddittorio e credo anche di essere cinico si. Sono un pessimista che sta a questo mondo e osserva il proprio quotidiano e credo che la mia natura sia piuttosto cinica effettivamente..
Eppure la tua arte parla alle persone le vuole scuotere in qualche modo...
Si penso di essere molto chiaro e diretto nei miei messaggi, la mia è un’arte che vuole pungere, dare fastidio ma essere leggibile. Quando qualcuno mi dice di non aver capito nulla di una mia opera gli rispondo che non c’era nulla da capire, il messaggio per quella persona evidentemente è il niente, semplicemente. L’arte ermetica è un muro dietro il quale qualcuno si sta nascondendo e dietro non c’è sicuramente una persona che si può definire artista. Credo nella potenza comunicativa dell’arte. Ad esempio, lavoro molto coni luoghi comuni, che sono “alla portata di tutti” ma in questi la verità è assolutamente evidente, le cose si evidenziano da sole in essi. Anche la mia ricerca estetica si preoccupa della chiarezza, quando qualcuno mi dice di non capire bene mi preoccupo..
Mi sembri uno sperimentatore da questo punto di vista, ti muovi molto attraverso linguaggi e materiali sempre diversi…
Si è vero, anche se ho bisogno di usare un oggetto industriale, una bottiglia di plastica ad esempio, la riproduco o la faccio riprodurre esattamente come quelle che si comprano o anche in altre varianti, in base a come mi serve. Come d’altronde moltissimi artisti contemporanei, mi rivolgo all’industria..
E oltre alle industrie di cui parli hai dei collaboratori personali, una squadra di persone a cui ti rivolgi quando fai lavori nuovi..?
Dipende da quello che devo realizzare, ho dei miei “fornitori” personali ma effetivamente capita che mi aiuti davvero tanta gente per una mostra.
E questo non ti fa sentire meno padre delle tue opere?
No affatto. Io sono padre del concetto che anima quell’opera, quell’oggetto, anche se non ho mai contribuito alla sua creazione fisica. Il mio studio a volte può essere completamente vuoto e invece è il momento in cui sto lavorando di più perché la mia testa sta lavorando tanto. Non ti nascondo che c’è stato un periodo in cui ho cercato di recuperare una certa manualità, volevo riavere un rapporto diretto con la materia, mi è servito a tenere un certo equilibrio, una specie di meditazione zen..
Si è abbastanza discusso del fatto che molti artisti famosi siano ormai delle aziende vere e proprie in cui vengono assunte centinaia di persone per la realizzazione di opere per poi porre una sola firma finale...
E’ così è verissimo, credo che questo nella storia dell’arte sia sempre avvenuto, la bottega di Michelangelo era un’azienda d’altronde.. Questo meccanismo di cui parli è assolutamente attuale, ed è inevitabile che nel sistema artistico di oggi questo avvenga, è lo specchio del funzionamento della nostra realtà stessa.
Com’è il tuo rapporto con la storia dell’arte classica, accademica hai dei modelli ideali a cui ti ispiri?
Si mi è capitato di guardare al passato in questo senso, amo molto le opere di Paolo Uccello.
Ultima curiosità: hai lavorato per una collettiva nel 2006 al castello di Acerra, un luogo oggi al centro di scandali ambientali, che si configura come una toxic city dalle fondamenta inquietanti. In quel caso hai realizzato un lavoro su un personaggio crudele, una donna assassina e mangiatrice di uomini, conoscevi il contesto in cui andavi ad operare?
Il mio lavoro era ispirato alla storia della regina Giovanna, che comprò un esemplare di coccodrillo durante un viaggio in Africa e lo portò al castello con sé. Faceva divorare tutti i suoi amanti segreti nel fossato dove si trovava il coccodrillo. Per quanto riguarda Acerra credo non si fosse ancora a conoscenza della contaminazione di quella zona e gli scandali ambientali non erano ancora scoppiati forse. Ma quando realizzo un opera mi preoccupo sempre di conoscere il contesto in cui si va a inserire ovviamente è una fase che fa parte del mio lavoro.