
Perchè la moda fa finta di essere per tutti durante la Design Week?
Gadget, file enormi, engagement – il Fuorisalone non è che una Fashion Week a porte semi-aperte
14 Aprile 2025
La 63esima edizione del Salone del Mobile di Milano si è chiusa con numeri da capogiro: oltre 302.000 presenze registrate, più di 2.100 espositori da 37 Paesi e un indotto economico stimato in 278 milioni di euro, con un incremento dell’1,1% rispetto al 2024. Ma è stato soprattutto il Fuorisalone a catalizzare l’attenzione mediatica e pubblica, con oltre 1.650 eventi sparsi in tutta la città, in crescita del 20,5% rispetto all’anno precedente, e una marea umana stimata in centinaia di migliaia di visitatori che ha attraversato Milano giorno e notte. In questo contesto, i brand di moda hanno moltiplicato la loro presenza, con 48 attivazioni ufficiali durante la settimana, in cui non contiamo le iniziative di brand più sportswear o piccole realtà, mescolando installazioni artistiche, esperienze immersive e momenti di socialità, più o meno tangenti al design vero e proprio. Numeri che rivelano un bisogno sempre più urgente da parte del fashion system di generare engagement, in un momento segnato da una profonda crisi del lusso, da mercati volatili e da una crescente perdita di rilevanza culturale. Mentre il mondo del design si apre, la moda milanese resta ancorata a paradigmi vecchi, inaccessibili, e spesso autoreferenziali. I marchi che approfittano della Design Week lo fanno non solo per esibirsi, ma anche per ottenere visibilità fuori dal recinto elitario delle sfilate. Se la settimana della moda è una maratona blindata per addetti ai lavori, quella del design è diventata un’avventura cittadina in cui il pubblico può esplorare, toccare e vivere. Lì dove la Fashion Week costruisce muri, il Fuorisalone apre porte. Questo scarto evidenzia una frattura sempre più ampia tra l’industria della moda e il contesto urbano e sociale in cui opera. Eppure, viene spontaneo chiedersi: ha davvero senso partecipare a un evento dichiaratamente orizzontale e democratico come il Fuorisalone quando, per il resto dell’anno, si difende con le unghie e con i denti l’idea elitaria e verticale della fashion week?
La questione non è priva di contraddizioni. A Milano, durante questa settimana, si è assistito a uno spettacolo emblematico del rapporto ormai consumato tra moda e pubblico. Migliaia e migliaia di persone si sono messe in fila, anche per ore, per accaparrarsi gratuitamente lo sgabello firmato Etro o la cartella-borsa distribuita da Loewe. Oggetti di design curati, limitati, desiderabili, certo. Ma soprattutto immediatamente rivenduti in massa su Vinted e altre piattaforme di second hand a prezzi stratosferici, in un cortocircuito che priva tutto di significato. L’oggetto non è più simbolo di un’esperienza o testimonianza di un’estetica condivisa, ma diventa merce da traffico rapido, da monetizzare al volo. E così anche il gesto democratico dell’omaggio si svuota, trasformandosi in una performance che riproduce le dinamiche della scarsità artificiale e del profitto istantaneo. In compenso, i brand di moda ottengono ciò che nessuno vede dai tempi beati di Supreme e di Virgil Abloh, le file chilometriche fuori dai negozi, le persone che fanno carte false pur di entrare per prime, le prenotazioni per le visite che si accumulano e si accavallano. È indubbio che, in primo luogo, questi eventi non servono a fare community dato che i visitatori che raccattano gift non saranno mai clienti e che accanto a queste aperture e visite guidate esiste un calendario di cene e preview dedicato ai membri del “circolino” che hanno il privilegio di non fare la fila. E che, in secondo luogo, il rapporto così creato con le community locali sia del tutto tossico: i brand cercano numeri, chiedono prenotazioni live per visitare le installazioni per mietere dati, cercano la marea di interazioni e tag portate da frotte e frotte di visitatori; ma dal canto suo il pubblico, alla ricerca febbrile di accesso al loro mondo, finisce per dimostrarsi parassitario e venale. Non è un caso che i regali e i gadget siano tutti pubblicizzati da una pagina ormai celebre di nome “Milano da Scrocco”, lo spirito dei cui post non può di certo essere frainteso.
Questa tensione tra inclusione e esclusività non è nuova, ma oggi si fa più acuta che mai. Da un lato, i brand scoprono nella Design Week un’occasione di contatto reale con un pubblico vasto, curioso, trasversale. Dall’altro, mantengono intatto – o cercano di irrigidire – il recinto della fashion week, continuando a blindare le sfilate dietro inviti selezionati e showroom distaccati dalla vita quotidiana della città. Tanto più che ogni festa, ogni cena, ogni cocktail e persino ogni evento sia in realtà su invito o addirittura pensato per soli influencer: ogni volta che una porta viene aperta verso il pubblico, si ha cura di creare un secondo evento più privato e più esclusivo che tiene comunque il recinto chiuso. La Milano della moda, dunque, sembra incapace di decidersi tra apertura e chiusura, tra community e club esclusivo, tra sogno e realtà - rivolgendosi, a ogni buon conto, a un’élite annoiata e ultra-ricca, che popola un ecosistema parallelo fatto di member club, lusso sbandierato e consumo autoreferenziale. L’apertura di luoghi come Casa Cipriani, sempre più una location per cene brandizzate; The Wilde, Core Club ma anche Soho House, che ha organizzato un evento in settimana, e altri ancora indica una trasformazione strutturale nella destinazione d’uso della città, sempre più orientata a ospitare ricchezza straniera e sempre meno capace di offrire spazi vitali a chi la vive ogni giorno. La Milano che emerge dalla Design Week è uno specchio ingrandito del suo presente: una città sospesa tra attrattività internazionale e disillusione interna, tra creatività diffusa e un’élite sempre più distante. I numeri raccontano una metropoli ancora vitale, ma il sentimento dominante tra i più giovani è lo smarrimento. Troppo cara per viverci, troppo esclusiva per sentirsi rappresentati, troppo impegnata a coltivare una narrativa glamour per accorgersi delle sue crepe sociali.
tre quarti delle persone in fila se ne sbatte le palle del design e non aspetta altro che mettere la foto su instagram come le loro influencer preferite o prendere la borsina gratiz
— kaity (@vir7ues) April 10, 2025
E se la Fashion Week diventasse come la Design Week? Più aperta, più diffusa, più integrata con la città. Un evento capace di coinvolgere davvero il pubblico, non solo una manciata di addetti ai lavori o influencer selezionati. Una settimana della moda che si lasci attraversare, che sperimenti formati nuovi, che porti la creatività fuori dagli showroom e dentro la vita urbana. Non sarebbe solo un gesto simbolico, ma un’azione concreta per risanare un sistema in crisi, per restituire senso a un settore che, oggi più che mai, ha bisogno di ridefinire il proprio ruolo culturale ed economico. Una Fashion Week più inclusiva, anche se si dovrebbe capire come, ma magari con eventi dedicati al pubblico, potrebbe generare nuovi flussi di ricavi, allargando la base dei consumatori, valorizzando il patrimonio manifatturiero italiano e rilanciando l’attrattività internazionale di Milano in modo più autentico. Fare sistema non significa solo stare insieme, ma condividere visione, rischi, pubblico. E oggi, l’unico pubblico che sembra davvero desideroso di partecipare è quello che la Design Week intercetta con successo, perché sa parlare a tutti senza rinunciare alla qualità. E forse, aprendo la settimana della moda, si toglierebbe anche un po’ di pressione dalla Design Week stessa, ormai congestionata fino al paradosso.
Milano è una città abituata a reggere eventi globali, ma lo fa al prezzo di uno stress urbano crescente, tra logistica al collasso, mobilità impazzita, risorse pubbliche drenate. Considerato che la Fashion Week già occupa spazi, persone, comunicazione, ed è comunque diventata più “visibile” e più “instagrammabile” nel corso degli anni, non avrebbe più senso ripensarne il format? Trasformarla in un’occasione per dialogare con la città, aprire le porte, creare esperienze reali e non solo immagini da feed? Così si risolverebbe, almeno in parte, quella contraddizione che oggi lacera il sistema: da un lato l’esclusività esasperata, dall’altro l’ossessione per l’engagement a ogni costo. La moda non può continuare a rincorrere il pubblico solo quando le conviene, per poi richiudersi nella sua torre d’avorio non appena si spengono i riflettori. Se vuole tornare a essere rilevante, deve uscire dai suoi confini, parlare chiaro, contaminarsi. Come fa il design. Come fa la città, quando le si lascia spazio.