
Il paradosso della durabilità nella moda
Il cappotto della nonna vs la maglia in poliestere, chi vince?
23 Gennaio 2025
E se vi dicessero che il cappotto ereditato dalla nonna, simbolo di artigianalità italiana, ha una durabilità inferiore a quella di una maglietta da calcio in poliestere destinata a una sola stagione? L’affermazione può sembrare provocatoria, persino assurda, ma è esattamente ciò che pensano gli standard europei definiti dall’ISO (International Organization for Standardization) e dal CEN (European Committee for Standardisation), che misurano la resistenza dei tessuti in base a lavaggi e performance tecniche. Paradossalmente, alcuni capi di alta moda, percepiti come longevi e intrinsecamente preziosi, non reggono il confronto con i prodotti di fast fashion realizzati in fibre sintetiche progettate per sopravvivere ai dettami di laboratorio più che ai nostri desideri. Ma avrà davvero senso valutare la durabilità di un capo esclusivamente attraverso parametri fisici? Come afferma Carlo Capasa, presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, in un’intervista a La Repubblica, la sostenibilità di un capo «non può essere basata solo sulla resistenza sica ai lavaggi, deve essere anche emotiva». Un capo è più di un oggetto da testare: è memoria, stile, un racconto di chi lo ha scelto e indossato. Capasa cita il caso di un abito in pizzo: fragile per natura, eppure in grado di attraversare le generazioni come un gioiello di famiglia, un testimone prezioso. Al contrario, una maglia in poliestere, per quanto capace di resistere a decine di cicli di lavaggio è molto probabile che venga scartata dopo una sola stagione, vittima dell’obsolescenza programmata.
La tensione tra funzione tecnica e valore affettivo era già stata anticipata da Roland Barthes nel suo saggio Il Sistema della Moda: «Un abito è un discorso, una storia che indossiamo». Se l’abbigliamento racconta le nostre scelte, emozioni e aspirazioni, ridurlo a un algoritmo di resistenza è come scambiare un diario per un manuale di fisica: una negazione della sua essenza culturale e simbolica. Gli standard di durabilità europei impongono criteri come la resistenza all’abrasione, ai lavaggi e alla luce. Sembrano fatti per misurare l’efficienza dei materiali sintetici—poliestere e nylon in testa—mentre i tessuti naturali, come lana, seta o cotone, non sempre passano l’esame. Eppure, proprio questi materiali incarnano il fascino della vera qualità, quella che si cura e si conserva.
L’ossessione contemporanea per la resistenza meccanica rischia, dunque, di contribuire al successo del fast fashion sul mercato. Dietro la retorica della sostenibilità promuove il l'utilizzo delle fibre sintetiche, apparentemente robuste ma deleterie per l’ambiente. Secondo la Ellen MacArthur Foundation, ogni lavaggio di capi in tessuti sintetici rilascia microplastiche che avvelenano i mari. La vera sostenibilità passa per scelte apparentemente controintuitive: materiali naturali, fragili ma ecologici, sono meno longevi nei report tecnici ma meno dannosi per il pianeta. Un altro punto cruciale è la riparabilità. Le fibre organiche si prestano a interventi manuali, un sapere antico che le rende vive per decenni. Un cappotto di lana può essere rammendato, rivitalizzato, tramandato, mentre una giacca in poliestere, una volta danneggiata, diventa rifiuto. Che senso ha allora una durabilità che non contempla la possibilità di rigenerazione? Nell'epoca del ricambio e del consumismo sfrenato, imparare a valorizzare i segni del tempo sugli abiti significa rieducarsi alla pazienza.
Le normative europee che ridefiniscono il ciclo di vita dei capi d’abbigliamento rischiano, paradossalmente, di soffocare l’eccellenza dell'artigianato. Lana, seta, lino vengono penalizzati rispetto a tessuti sintetici, la cui robustezza non si traduce in effettiva longevità. Un cappotto pregiato se curato può vivere per generazioni anche se fallisce un test di laboratorio; il boom del vintage e del second-hand ne è la prova: capi delicati e preziosi tornano in circolazione, accolti da chi sa apprezzare la loro storia. Secondo ThredUp, il mercato dell’usato raddoppierà entro il 2030, trainato da una sensibilità crescente verso l’ambiente e la ricerca di unicità. In risposta a questi dati, la moda ha bisogno di produrre nuovi standard capaci di riconoscere che il ciclo di vita di un capotto non è solo una questione di resistenza materiale, ma di durata emotiva, culturale e affettiva.