Corsa verso il nulla: perchè la moda costa così tanto nel 2024?
Come il mito della crescita infinita ha gettato il settore nel caos
19 Dicembre 2024
Nella storia della moda, il 2024 sarà forse ricordato come un anno di transizione. Dalla prosperità del decennio precedente e dai fasti della ripresa post-pandemica si è passati a un clima di instabilità e diffidenza. Il consumer sentiment è basso, la filiera produttiva in crisi e soprattutto i prezzi sono diventati del tutto oltraggiosi. Una moda iper-satura, che ha colpito di meno, ha anche iniziato a vendere meno e, per moltissimi all’interno del sistema, specialmente nella stampa di moda, il perno di questo problema sono proprio i prezzi sempre più inaccessibili. Lo hanno detto Business of Fashion, il Wall Street Journal, WWD, Jing Daily e il Financial Times; ne hanno parzialmente parlato tanto Andrea Guerra, CEO del Gruppo Prada, che Carlo Capasa, presidente del CNMI, i quali di recente hanno in sostanza detto che elevare il price point dell’intera gamma rendendo inaccessibili anche i prodotti entry price non è stata la migliore delle strategie. Mulberry, Burberry, i brand di Capri Holding ma secondo il WSJ anche Saint Laurent hanno quietamente iniziato ad abbassare i prezzi su alcuni prodotti chiave – ma è davvero la questione dei prezzi la spina nel fianco della moda? Per capire meglio lo stato di salute del sistema, abbiamo interpellato tre insider: Francesco Tombolini, senior brand advisor il cui résumé include ruoli amministrativi presso Giglio.com, Yoox-Net-a-Porter, Armani e Gucci solo per citarne alcuni; Tommaso Mello, co-founder di Milk Revolution e RPM Agency; e Giacomo Piazza, co-founder di 247 Group e di FABS – Fashion Buyer Society. Per tutti e tre, in effetti, la crisi di vendite della moda è riconducibile, ma non riducibile, ai prezzi. Piazza ha ben sintetizzato il concetto dicendo che «questa crisi del lusso è una malattia multifattoriale, una tempesta perfetta di tante situazioni». Anche Mello gli fa eco definendo i prezzi esorbitanti una «componente» di una crisi dettata dalla «saturazione dei mercati di sbocco come Cina, Russia e Corea del Sud che sono state riempite di prodotto e sono arrivate alla saturazione».
Non di meno, al di là di cause geopolitiche e dei divari della ricchezza che vanno separandosi, tutte variabili che esulano dalle capacità di un’azienda, il vero problema è che l’aumento ingiustificato dei prezzi ha eroso l’amore che molti clienti nutrivano verso i brand. «Il prezzo dovrebbe aumentare, ma in misura proporzionale alla domanda, così da lasciare un margine di richiesta», ci spiega Francesco Tombolini. «Qui, invece, hanno fatto il contrario: riempito i mercati di merce e aumentato i prezzi. Ma a forza di alzarli, sono arrivati a un punto in cui nessuno può più comprare: a quei livelli non c’è più valore tangibile, né piacere né decoro. Così hanno spalancato le porte a Zara. Oggi il prezzo viene calcolato sui costi, ma questo è un errore: il prezzo dovrebbe basarsi sul consumo». Eppure i costi sono aumentati, come fa notare Mello, «per stare in certe posizioni o avere certi servizi distintivi come affitti nelle migliori location e personale specializzato» e per il problema della perception che obbliga molti brand «a mantenere o addirittura ad alzare i prezzi per non perdere completamente la fiducia degli attuali clienti finali». Piazza invece considera il problema da una prospettiva più d’insieme: «Se i brand vendono meno, alzano i prezzi per compensare e questo ricade su tutto il sistema: se i brand di lusso alzano la barra anche tutto quello che è sotto si alza», anche se «le più recenti situazioni geopolitiche» hanno innescato «una catena di speculazioni, che poi alla fine ricade sul cliente». Il fenomeno però ha radici storiche dato che «il prezzo è frutto di politiche di anni di aumenti, non è il risultato di una policy di adesso», continua Piazza per cui «c’è un problema quando l’aumento dei prezzi non corrisponde più alla funzione che ogni brand ha nell'immaginario collettivo della gente, perché non serve cambiare il prezzo per diventare luxury. Se un brand di moda cambia il price tag e lo mette uguale a quello di Hermès, non è Hermès perché il valore del marchio di base è diverso».
@jansen_garside #greenscreen What are the most expensive items from quiet lixury brands? Well, it gets a lot more expensive than this, but here’s a taste! #fashionfyp #fashiontok #explore #fashionlover #fyp original sound - Jansen Garside
Questo fattore del percepito che viene artificialmente manipolato (Piazza ha parlato di una «grande confusione») ci porta nel vivo del problema, ovvero la lotta di potere che si sta svolgendo in cima alla piramide del lusso tra i brand del real luxury e i brand di moda. «Vanno considerati di lusso solo i brand che hanno in mano la completa gestione della filiera: dalla produzione al commerciale, andando diretti al consumatore finale», spiega Tommaso Mello. «Sotto questo livello apicale ci sono tutti i top brand che fanno moda: qui ci si muove sul cosiddetto “doppio margine”, in quanto i fatturati dipendono da più canali e non solo quello della vendita diretta al consumatore finale». La volontà dei brand di moda o top brand di invadere lo spazio del lusso ha creato una pericolosa spirale di prezzi al rialzo: «Se Chanel ed Hermès hanno alzato i prezzi, ci sono due motivi: scostarsi dalla massa di brand che si sono avvicinati ai loro price point e scoraggiare il resale. Da un lato se i normali brand di moda cominciano a fare una borsa quattromila euro, la loro deve costare ottomila - la proporzione deve rimanere quella». Ma la distinzione rimane fondamentale dato che «quando compri da Chanel o da Goyard stai comprando degli oggetti che sono molto più timeless, non passano mai di moda. Mentre una borsa di un qualunque altro brand di moda ha la durata di qualche stagione perché poi loro fanno molte nuove borse, molte nuove cose e hanno un passo diverso perché sono moda: il lusso va lento, la moda va veloce». Per Francesco Tombolini la distinzione riguarda invece la natura stessa di un’industria troppo allargatasi per conservare la propria natura originale: «L’artigianalità c’è sempre, ma il prezzo retail di certe categorie è moltiplicato per venti volte. Nel mondo della post-globalizzazione, si dovrebbe parlare di post-lusso. Il consumo non è più legato all'aspirazionalità, ma all'identità», ci spiega. «Il post-lusso ha bisogno di far vedere che costa molto per attrarre non chi desidera un bene, ma chi vuole sentirsi bene. In questo, la moda ha fallito». Purtroppo però per questi «marchi iper-distribuiti» ci sono stati problemi dato che «anche i margini sono ridotti, perché portare questa merce in giro e aprire negozi in ogni geografia ha un costo».
LVMH consolidated luxury to a point where we don't have luxury anymore. Last man standing is Hermès and a couple of diamond dealers against cookie-cutter commodity chic that is bankrupting the middle class and forcing wealthy people shop for vintage and employing a tailor
— Blair Dulder CPA(@runaway_vol) March 24, 2024
Ma cosa ha creato questa confusione? Per Tombolini c’entrano le «logiche matematiche» promosse dai «falsi guru della consulenza». Anche Giacomo Piazza ha parlato di «analisti che non hanno mai fatto niente nella moda» e che «immaginano delle associazioni, guardano i dati e decidono che il consumatore si comporta così o vorrebbe questo» creando «uno scollamento sempre più profondo tra quello che è il mondo della moda e quello che è il mondo reale». Per Tommaso Mello invece un altro problema è la scarsa flessibilità di «piani triennali, quinquennali, non aggiornati alle dinamiche di mercato influenzate da oscillazioni dettate da cause non controllabili». L’eccesso di finanza e l’iper-crescita commerciale hanno fatto perdere ai dirigenti il contatto con la realtà. «La teoria dei nostri executive è semplice: follow the money. E così facendo, hanno scelto soltanto il new money, mentre moda e lusso erano fenomeni legati al old money», ha spiegato Tombolini. «Il lusso fa parte di un altro girone e può decidere, non essendo in competizione con altri, cosa, quando e a che prezzo vendere, perché si rivolge ad una clientela molto targetizzata e già fidelizzata», spiega invece Tommaso Mello. «Ma i top brand che provano, o hanno provato a seguire la strategia dei prezzi elevati, non possono quasi mai raggiungere l’obiettivo dato che non hanno controllo sul cliente finale» e questo perché «stanno perdendo presenza organica all’interno dei contenitori multibrand che sono il primo canale per attrarre nuova clientela, perché sono ben radicati sul loro territorio, hanno credibilità fin anche storicità, un pubblico affezionato e costante». Giacomo Piazza, dal canto suo, crede che l’ossessione dei dati abbia portato i brand a voltare le spalle al «vero cliente, che è stato chiamato “aspirational” come se fosse un poveraccio che aspira a entrare nel mondo del luxury e si è scommesso strategicamente su un cliente big spender e sempre meno reale». Il problema però è che «questa politica dei prezzi non è andata a portare via dei clienti ai brand del lusso, a Loro Piana, Zegna, Goyard, Hermès, Chanel. Ha semplicemente portato via i clienti ai competitor - ma i brand di moda si stanno giocando sempre lo stesso cliente». Inoltre, continua Piazza, «se tu provi a posizionarti nel lusso, ti ritrovi a parlare con un cliente che non è più il tuo. E il tuo cliente intanto va da un'altra parte».
Insomma il problema è una contraddizione di una moda che si vuole esclusiva ma che in realtà è più massificata che mai. «Se volessero davvero la scarcity, venderebbero i prodotti solo ai loro VIP. Invece, ciò che viene indossato dalle Kardashian è fatto per la massificazione», dice Tombolini. Un punto di vista condiviso da Mello: «Possiamo trovare alcuni dei top brand in settanta, ottanta diverse città Italiane all’interno delle migliori vetrine multibrand, questa la vogliamo e possiamo davvero chiamare esclusività?» Una massificazione che è frutto del mito della crescita infinita, mito che per Francesco Tombolini «porterà alla distruzione del brand». Per Giacomo Piazza «la crescita non può essere infinita» e il problema è di mentalità e di narrazione. Brand come Louis Vuitton o Dior «che fanno ventidue miliardi, sedici miliardi, magari non sono in crisi ma invece sono arrivati al loro massimo e adesso crescono del 2% o del 3%. O possono anche calare – ma è okay. Viviamo in un momento dove si pensa sempre che “the only way is up”. Ma non è detto, non è mai stato detto così. E non capisco perché si debba vivere nell'illusione» infatti «i brand che fatturano tanto a un certo punto devono trascendere e fare altre cose, come gli hotel». E se si somma questa volontà di espansione a ogni costo con la saturazione di un mercato iper-veloce si crea confusione anche negli strati più alti della clientela: «Il big spender non è un cretino. Non è perché è un big spender deve essere stupid spender», ironizza Piazza. «Anche lui darà una proporzione a quella che è l'offerta. Proprio perché ha il più ampio raggio di scelta, può comprare lo stesso prodotto dai brand che hanno più traction». Mentre nel frattempo ci sono «brand che non sono né carne né pesce perché magari il design è appealing per un certo tipo di cliente che però non ha i soldi per comprare e invece il cliente con i soldi non riesce a capire quella creatività. Il range del cliente potenziale è molto grande: ci sono tantissimi che hanno voglia di un prodotto che magari sia migliore della borsa di un brand di fast fashion ma non gliela dà nessuno. Quindi, nel mezzo del mercato si è creato un vuoto di potere».
Y'all love the idea of exclusivity but if fashion spaces became exclusive again none of y'all would be able to get in and a lot of you would be kicked out. Don't be DENSE https://t.co/iXL42NtxmO
— Vee (@TomFordsMuse) December 5, 2024
Finora, però, abbiamo parlato di vendite dirette. Ma cosa succede per l’altra faccia del mercato, ossia i retailer multimarca che rappresentano gli avamposti dell’industria della moda nei vastissimi territori al di fuori dei grandi centri? «L’aumento dei prezzi ha impattato il mondo del retail in modo terribile», dice Tombolini. «Sia i diretti che gli indiretti, tra fisico e digitale, hanno il 75% delle transazioni a sconto. Anche quelli che non fanno sconti offrono carte fedeltà e gift di vario tipo». Tommaso Mello ci ha descritto in tutta la sua contraddittorietà questa spirale discendente: «Quando un brand alza i prezzi troppo e troppo in fretta si trova a fronteggiare un calo non preventivato del 15% o del 20% di venduto durante le campagne vendite, con costi di filiera già certi e solitamente entra in un loop negativo che porta il brand a perdere quote di mercato wholesale in tempi abbastanza rapidi, dovendo sostituire la mancanza di fatturato “esterno” con quello “diretto”. Essendo però il fatturato retail al costo, devono aumentare gli investimenti dedicati alla vendita dei prodotti e questo li “obbliga” ad alzare il prezzi oltre che per l’aumento dei costi di struttura, anche perché immettendo meno prodotto sulla rete wholesale devono compensare la perdita di quantità con l’aumento del prezzo medio. Una volta entrati in questo loop, il processo è abbastanza irreversibile a meno che il Top Brand non trovi un “IT Item” ossia un oggetto del desiderio che possa trainare, con una singola SKU, il fatturato». L’invenduto però non scompare di certo nel nulla: «Per ridurre il peso delle giacenze, i brand hanno aumentato a dismisura il prezzo retail, vendendo poi negli outlet o sulle piattaforme», spiega Tombolini per cui «gli outlet continueranno a crescere, così come le vendite a rate o parcellizzate. A volte penso che i prezzi delle boutique siano così alti che si guadagni di più negli outlet». Sentimento a cui fa eco anche Tommaso Mello: «McArthurGlen ha dichiarato di aver realizzato vendite record nel 2024, con una crescita del fatturato del 7% dall'inizio dell'anno, e che si tratta del quindicesimo trimestre consecutivo di crescita dalla pandemia. Quanto hanno dichiarato nella stessa trimestrale gruppi come LVMH e Kering? -2% il primo, -15% il secondo».
Ma quindi quale può essere la soluzione a questo sistema ormai disfunzionale? «Io suggerirei, ad esempio, la fine delle stagioni», dice Tombolini. «A parte i marchi con distribuzione non significativa, ci sono tre stagioni di merce in eccesso sul mercato. Credo che, alla fine, molte compagnie dovranno creare prodotti diversi per canali e mercati differenti. La guerra dei prezzi si può combattere solo abbassandoli e razionalizzando l’offerta». Per Tommaso Mello invece il futuro appartiene «a quei nuovi brand che, conoscendo già il target cliente finale, ne hanno studiato gusti e consumi oltre ad averne intercettato le esigenze, sia stilistiche che di budget spending, senza dover difendere fatturati enormi, né posizioni pregresse, garantendo marginalità superiori a quelle dei Top Brand». Infine, Giacomo Piazza ha indicato radici più profonde di questo problema, che si trovano in un’industria adagiata, per così dire, sui propri allori. Per Piazza infatti, al di là delle situazioni geopolitiche e del mindset aziendale, far uscire l’industria dal gorgo dei prezzi richiede un ripensamento più radicale: «Non è necessariamente un problema di domanda, sicuramente c'è un adjustment domanda, ma il problema è proprio l’offerta. È un'offerta molto piatta. Dobbiamo arrivare al ground zero e reinventarci un nuovo tipo di offerta. Bisogna offrire un po' di più per un prezzo più giusto». Senza dubbio una reinvenzione è necessaria: più si aspetta, più si indugia, più radicale e dolorosa essere per tutta quanta l’industria. Ma da questa considerazione emerge un interrogativo ancora più pressante: la moda è capace di reinventarsi? Di stagione in stagione, di trimestre in trimestre il quesito diventa più esistenziale. Cosa saprà sacrificare l’industria, prima di sacrificare se stessa?