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Il secondhand cresce, ma non quanto il fast fashion

Il mercato dell'usato fatica invece a tenere il passo

Il secondhand cresce, ma non quanto il fast fashion Il mercato dell'usato fatica invece a tenere il passo

Quando si parla di moda nel 2024, c’è un dato che risalta: il fast fashion è ancora in cima alla lista delle preferenze dei consumatori online. Nonostante l’aumento dell’attenzione per la sostenibilità, soprattutto tra le nuove generazioni, piattaforme come Amazon, Zara, Shein e Temu continuano a dominare il mercato, facendo registrare numeri da capogiro. Secondo una recente indagine di Yocab, citata dal Sole 24 Ore, il commercio online B2C in Europa ha raggiunto 887 miliardi di euro nel 2024, con il predominio incontrastato dei giganti del fast fashion che si sono piazzati nelle prime posizioni di vendita. Il mercato dell’usato, pur crescendo, non riesce a tenere il passo. L’unica eccezione è Vinted, che continua la sua crescita. Il motivo? Il second hand risulta meno attraente per gli e-shopper in termini di velocità di consegna, convenienza e ampia offerta di nuovi capi. Tutto questo è confermato dai risultati di piattaforme come Temu e Shein che entrano di diritto nella top 5 dei marketplace più popolari in quasi tutti i Paesi europei. Perché il fast fashion continua a dominare, mentre l’usato fatica a decollare?

Una prima risposta è insita nel nome: fast fashion significa velocità, sia di acquisto da parte del consumatore, sia dei brand, che riescono ad allinearsi alle nuove tendenze e a proporre ogni settimana capi nuovi e alla moda. Infatti, secondo Statista, il trend di crescita delle vendite di fast fashion arriverà a un turnover di 185 miliardi di dollari nel 2027, rispetto agli attuali 106 miliardi di dollari, con un balzo quindi del 74,5 %. Questi dati ci danno una seconda risposta al quesito: il fast fashion e l’ultra fast fashion costano poco e sempre più persone abbandonano il lusso come risposta all’inflazione e alla crisi economica, senza però voler rinunciare a comprare. Se un consumatore vuole un vestito per il weekend, non deve aspettare settimane. Può averlo subito, a un prezzo che non fa male al portafoglio. 

Il mercato dell’usato potrebbe rappresentare una soluzione sostenibile sia dal punto di vista ambientale che economico, offrendo un’alternativa concreta alla produzione di nuovi beni e riducendo l’impatto delle risorse consumate. Tuttavia, fatica ancora a tenere il passo con la velocità e l’accessibilità offerte dal fast fashion. Nonostante piattaforme come Vinted e Vestiaire Collective abbiano visto un aumento significativo degli utenti nell’ultimo anno, il second hand rimane ancora un’alternativa di nicchia, che non riesce a competere in termini di scelta, prezzo e rapidità. Allo stesso tempo, nell’ultimo anno sono arrivati dei grandi venti di cambiamento da parte delle nuove generazioni. Secondo il report Circular Fashion Survey on New Generations 2024 di PwC, condotto su Gen Z e Millennials europei, il mercato del pre-owned ha conquistato 7 giovani su 10, con il 29% degli intervistati che ha dichiarato di aver scelto capi preloved per almeno metà del proprio guardaroba. In più, il 54% dei giovani intervistati ha effettuato i propri acquisti su e-commerce segnando un dato in netta crescita rispetto al 2023, in cui solo il 35% dichiarava di comprare online. Tutti questi dati positivi vanno in controcorrente con la realtà attuale, un panorama dove il vintage non riesce ancora ad imporsi definitivamente. 

La matrice è una: il consumismo. Il problema del consumo sfrenato accomuna il fast fashion al mercato vintage (tanto che si sta parlando di fast vintage), a discapito del secondo. Se per il fast e ultra fast fashion gli intenti sono chiari - comprare e produrre sempre di più, non curandoci dell’ambiente - per il vintage sorge un problema etico e di credibilità, soprattutto quando su piattaforme come Vinted finiscono in vendita proprio capi fast fashion - sulla piattaforma lituana più di 60 milioni di articoli in vendita sono di Zara. Non si compra vintage per comprare capi di qualità con un occhio di riguardo all’ambiente e a un mercato circolare, ma per comprare sempre e ancora di più, cadendo nella logica del fast fashion. Che si tratti dell’ennesimo caso di greenwashing o meno, comprare second hand ha dei benefici per l’ambiente. Secondo un report di The RealReal, gli acquisti di prodotti effettuati sulla piattaforma «hanno consentito ai consumatori di risparmiare ben 3,1 miliardi di litri d’acqua e 59.374 tonnellate di CO₂ rispetto all'acquisto di articoli nuovi».

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Il problema, però, resta evidente, radicato in abitudini e dinamiche culturali che spingono al consumo sfrenato. Spesso il vintage diventa un alibi per sentirsi sostenibili, ma finisce per trasformarsi in una scorciatoia che porta dritti al fast fashion: capi dalla vita breve, realizzati con materiali sintetici difficili da smaltire. Una contraddizione che rischia di alimentare l’iperconsumismo anziché combatterlo. Acquistare meno, con più attenzione, scegliendo prodotti di qualità, pensati per durare e facilmente riciclabili o smaltibili. Questa potrebbe essere la ricetta che il consumatore deve attuare per promuovere un modello più sostenibile e responsabile